27 Mar Potere e parola – di Renata Miletto
Pubblichiamo in esclusiva il testo presentato a Roma nel maggio 2003, nell’ambito delle giornate di studio internazionali: “E’ la psicanalisi una terapia efficace?”. Il testo inedito di Renata Miletto rappresenta un contributo alla discussione attualissima sulla psicanalisi vs neuroscienze,
di Renata Miletto
nterrogarsi sull’efficacia terapeutica della psicoanalisi non può riproporre la questione della guarigione dal sintomo, cioè del successo della cura, perché anche quando questa se la ponesse come finalità, è meglio, come Freud scriveva nel 1912 (Tecnica della psicoanalisi, Consigli al medico), accontentarsi del motto di quel chirurgo del passato che diceva: Je le pansai, Dieu le guérit. Raccomandazione a mantenere uno scarto tra il mezzo e il raggiungimento del fine. E non per altro, ma perché prendere il sintomo di petto, volerlo guarire, è peggio rispetto al fine della psicoanalisi.
Dal vocabolario efficace è definito ciò che produce un effetto pieno e sicuro, valido e convincente, espressivo e coinvolgente. Nessuno scarto tra l’effetto e ciò che lo causa.
Interrogarsi sull’efficacia, neanche oggi può prospettarsi l’eliminazione di quello scarto che del resto nel caso del disagio psichico non è neanche annunciato dai rappresentanti di psicofarmaci. Dunque è da mettere tra parentesi l’attribuzione all’effetto di essere pieno e sicuro che sposta l’attenzione sul successo piuttosto che sul rapporto problematico tra causa, mezzo e fine ed evita la questione del metodo a favore dell’indifferenza dello strumento scelto per il suo valore di capacità di assicurare qualche soddisfazione in risposta alla domanda. Insomma, con qualunque mezzo.
La questione potrebbe allora essere quella di chiedersi se la cura psicoanalitica può, o non deve, collocarsi nell’ambito di quelle terapie che, più o meno efficacemente, utilizzando vari tipi di attività umana, mirano a produrre effetti di soddisfazione. Nel nostro caso si tratterebbe delle psicoterapie che utilizzano gli effetti della parola scambiata in una relazione.
Non mi sembra difficile rispondere negativamente alla questione: l’insegnamento di Lacan ci ha fornito degli strumenti per questo, distinguendo, solo per fare qualche esempio, tra soddisfazione e godimento, tra domanda e desiderio, tra oggetto di desiderio e oggetto causa di desiderio, tra io e soggetto: è possibile abbordare la questione da diversi punti per sostenere che la psiconalisi non è una terapia come le altre, non solo, ma non è neanche una tra tante, si colloca in una posizione così differente che resta problematico definirla terapia, significante che riporta la questione di una certa guarigione, normalizzazione, più che non cura che nell’uso comune (curarsi di qualcosa) rimanda anche a qualcosa dell’attenzione, dell’ascolto. Resta invece il problema di chiedersi che cosa facciamo effettivamente quando crediamo di fare un’analisi, non solo perché le parole della teoria possono restare lettera morta ma non essere neanche lettera che richiede di essere decifrata, per diventare degli ideali –forme buone, compiute – che ignorano quanto il desiderio inconscio, che non è mai nuovo ma è indistruttibile, vi resti catturato. In ogni caso, è diverso, mi pare, avere come punto di riferimento un ideale e idealizzare ciò che ci poniamo come fine. Nel primo caso, una forma astratta, definita nella teoria, non raggiungibile nella pratica, costituisce un punto di tensione che garantisce alla cura la sua “rettitudine”; nel secondo, il fine è perseguito come oggetto e messo al posto dell’ideale in un rapporto di suggestione. E’ per questo, credo, che Lacan raccomanda di non rispondere alla domanda, perché non abbiamo niente da rispondere, in quanto psicoanalisti.
Resta il fatto che la parola ha degli effetti, come testimonia la nostra pratica, la cui molla continua a sfuggire e non cessa di interrogarci.
Che la parola abbia il potere di produrre degli effetti è all’origine della psicoanalisi e fin da subito non tutti positivi. La cura di parole metteva in luce nel rapporto tra medico e paziente un elemento di suggestione, e di erotizzazione, il transfert, che permetteva il suo svolgimento ma che non riconosciuto e padroneggiato ne determinava spesso l’insuccesso.
Freud motivò l’abbandono dell’ipnosi e dei metodi suggestivi con considerazioni di ordine sia etico che scientifico; nel 1909 (5 conferenze di psicoanalisi) scriveva: “L’ipnosi mi era divenuta sgradevole in quanto mezzo ausiliario capriccioso e per così dire mistico”; e più avanti: “L’ipnosi era un ausilio terapeutico ma anche uno ostacolo alla conoscenza scientifica della situazione reale”; nel 1921 in Psicologia delle masse ed analisi dell’ioparla di “una oscura avversione nei confronti di questa tirannide della suggestione”,… “mi dicevo che questa era una palese ingiustizia e un atto di violenza”. E faceva risalire la suggestione ad una disposizione conservata nell’inconscio fin dalle origini preistoriche della famiglia umana, in un rapporto al padre primigenio che domina l’io al posto dell’Ideale dell’io. Come manifestazione parziale dello stato ipnotico il rapporto suggestivo poteva essere giudicato un rapporto di massa a due.
Respinta come mezzo terapeutico, inoltre, la suggestione non poteva essere invocata nemmeno come causa del sintomo isterico, nonostante una certa parentela tra suggestione ipnotica e autosuggestione isterica; per comprendere quest’ultima si rende necessaria piuttosto l’enunciazione dell’inconscio: nella cecità isterica l’inconscio ci vede. L’idea di non vedere è l’espressione legittima della situazione psichica di dissociazione tra processi inconsci e consci e non la causa di essa; tale dissociazione è effetto della rimozione ed è analoga nel campo della logica alla deliberata astensione dal giudizio (I disturbi visivi psicogeni nell’interpretazione paicoanalitica, 1910). L’inconscio al posto della causa equivale dunque ad interrompere il legame tra causa ed effetto; astenersi dalla suggestione vuol dire rispettare questa divisione nella direzione della cura.
Il metodo che cercò da allora di mettere a punto per la sua cura di parole – è del 1909 (5 Conferenze di psicoanalisi) la prima menzione della formula della regola psicoanalitica fondamentale delle associazioni libere – rinunciava al potere delle parole che si fondasse sull’influenza esercitata in un rapporto d’autorità, personale, diretto ed erotizzato a favore della possibilità, attraverso delle parole libere, di raggiungere la verità dell’inconscio, e il reale della struttura psichica. Sapere la verità, un metodo di ricerca e di cura, andando incontro all’ideale scientifico del suo tempo, non rinunciava certo all’efficacia, ma non le subordinava attraverso un uso strumentale del mezzo la finalità etica e scientifica.
Freud ha formulato queste finalità nel Wo Es war, soll Ich werden e quanto all’efficacia ha posto un limite, sia per l’analista che per l’analizzante, nell’al di là del principio di piacere: c’è una tendenza che spinge al peggio e una soddisfazione cui si deve rinunciare perché l’accesso all’oggetto é sbarrato. La cura richiede l’astinenza dell’analista perché l’analizzante possa rinunciare al godimento che gli impedisce di riconoscere la sua posizione nell’inconscio rispetto all’oggetto della sua ricerca e riconquistarla come Ich.
La psicoanalisi ha dunque come mezzo il potere della parola in un rapporto al suo fine, che è l’avvento di un soggetto, che non è strumentale ma di “esclusione interna”. Il soggetto infatti è il soggetto della parola, che si manifesta nell’approppriazione e nell’articolazione di una parola che all’origine è ricevuta ed alienante.
Perché questa parola non assoggetti deve consentire uno spazio in cui il soggetto possa trovare un posto per lui, la possibilità di una interrogazione, di un indirizzo per un’articolazione in nome proprio. Per consentire il processo di soggettivazione la parola deve poter trasmettere uno spazio vuoto, luogo di un non sapere nel cuore del quale il soggetto possa supporre la verità su ciò che la parola vuole dire riguardo a ciò che lo concerne. La parola come significante ha questo potere, nel senso che apre questa possibilità; per questo la direzione della cura è essenzialmente “disciplina del significante”.
Ma per il fatto di preesistere al soggetto e di arrivare a lui da un altro, testimonia la presenza e diventa oggetto di un dono, un bene di scambio che fin da subito definisce un campo in cui si ripartisce la disponibilità per il suo utilizzo e il suo godimento e si pattuisce il riconoscimento reciproco. Per questa funzione della parola la suggestionabilità è una potenzialità originaria il che apre la possibilità di fondare un esercizio di potere: tutto è predisposto perché si attribuisca all’altro il godimento di questo bene, se ne attenda l’elargizione e si goda della condivisione e inversamente perchè ci si autorizzi a segnalare di esserne in possesso e magari di poter assicurare un’iniziazione. Freud dice che questo è porre l’oggetto al posto dell’Ideale dell’io, cosa diversa dall’identificazione all’ideale perché non reintegra un oggetto perduto ma ricostituisce un oggetto idealizzato, sovrainvestito da parte e a spese dell’Io, sovvertendo le funzioni normalmente esercitate dall’Ideale.
Il metodo della psicoanalisi rinuncia nella direzione della cura e mira a denunciare nel suo svolgimento l’esercizio del potere della parola che nella storia del soggetto è stata capace di assoggettare; si limita a mettere a punto e mantenere quelle condizioni per le quali nel giro del discorso indirizzato all’altro la parola dispiega le sue possibilità e il suo potere, ripropone e smonta nella ripetizione le forme grazie alla cui identificazione il soggetto ha reperito il segreto che lo concerne e a cui aspira, perché infine possa fare l’esperienza di non esserne, come persona e come soggetto, che un effetto.
La sua efficacia è dunque relativa ai limiti che si impone e al potere di ciò che resta. Il potere di un resto tanto più efficace quanto meno è preso in mezzo e da strumento per godere; allora, isolato, può emergere, essere riconosciuto e continuare a funzionare come ciò che ha mosso e muove alla parola.
Se di questa “efficacia” o “non efficacia” possiamo godere come analisti perché da questo ci procuriamo da vivere, non abbiamo da goderne altrimenti, anche quando cerchiamo di definire, com’é giusto, ciò che distingue il metodo e il fine della psicoanalisi da altre terapie che hanno la parola come strumento. Mi sembra che sarebbe porre la psicoanalisi nel posto dell’eccezione esterna, quando sappiamo che questo posto è occupato da un ideale ed è tenuto aperto solo se questo ideale è un “luogo-tenente” mentre per funzionare è da tenere vuoto.
Tanto più oggi, quando la psicoanalisi non è socialmente riconosciuta né per un suo posto di eccezione, come è stato in passato, e neanche per la sua diversità rispetto ad altre cure. Le domande che riceviamo sono sempre più domande di aiuto generiche, più o meno caratterizzate anche da desiderio di sapere cos’è che fa star male. Infatti non tutte queste domande hanno la caratteristica di poter diventare, lavorate, domanda di analisi. Alcune persone sono sollevate dal disagio nel loro diventare soggetti, altre no. Resta l’interrogativo se non ne vogliono sapere o non possano volerlo, ma è un fatto che spesso l’incontro con uno psicoanalista è determinante per smobilizzare l’impasse soggettiva che esprimono. Consentire un indirizzo al discorso, far vacillare il sapere del discorso intenzionale e risuonare qualche significante, introdurre una supposizione dell’inconscio, riportare al soggetto il sapere su questo inconscio, rendere sfocata qualche identificazione, tutto questo ha degli effetti, talvolta sorprendenti. Non è La psicoanalisi, ma non è psicoanalisi?