23 Mar Flavia Gojan – Joyce: Dalla Bocca all’orecchio
Sabato 10 maggio 2014
Laboratorio freudiano Roma -Via Corsini, 3
Flavia Gojan : In effetti sotto il titolo annunciato l’Oui-dire, il Dire-sì, di Joyce si nasconde il mio progetto di parlarvi oggi dello stile di Joyce in “Ulisse” e in ”Finnegans Wake”. E’ un progetto che mi ha richiesto un dispiegamento notevole di energie per lo scritto. Però mi è parso troppo ambizioso, parlarvi questo pomeriggio di entrambe queste due opere e quindi vi propongo di soffermarci sullo stile e sul cammino di Joyce in ”Finnegans Wake”.
Dal momento che ho potuto vedere ieri e oggi, quanto la questione delle parole imposte vi preoccupi e vi interroghi, mi sembra che circa queste questioni “Finnegans Wake” possa rispondervi meglio di “Ulisse”.
Comincio ricordando prima di tutto il modo in cui Lacan affronta questa questione delle “parole imposte” nel seminario “Le Sinthome”. Lacan sottolinea come la questione delle parole imposte riguarderebbe sempre più da vicino Joyce. E subito dopo aver parlato del caso dell’Uomo dalle parole imposte[1] e dopo un fuoripista dedicato al rapporto di Joyce con la figlia Lucia, questo fa dire a Lacan che le questioni di Joyce prendono posto nella sua continuazione del seminario su “Le Sinthome” e del suo stesso sintomo. Cito Lacan:
“Che Joyce attribuisca a Lucia questa qualità di telepatia su un certo numero di segni, di dichiarazioni che ella intendeva in un certo modo è proprio là qualche cosa che vi è del prolungamento di ciò che chiamerei momentaneamente il suo proprio sintomo, ossia, è difficile nel mio caso non evocare il mio paziente, come in lui tutto ciò era incominciato, ossia nei confronti della parola, non si può dire che a Joyce qualche cosa non fosse imposto”. [2]
Voglio mettere questo all’inizio del mio cammino, è qualcosa che non verrà commentato direttamente, ma che sarà presente nel testo. Si dice spesso di “Finnegans Wake” che si tratta di un libro per l’orecchio, ossia destinato ad essere letto ad alta voce e conosciuto attraverso la sua dimensione del suono e che Joyce era interessato da una visione debole, ma possedesse un orecchio molto acuto e sviluppato.
“Joyce, è sufficiente intendere la sua voce, e molto precisamente la registrazione di un frammento di “Finnegans Wake”. Dichiarazione del diritto della libertà di invenzione verbale, della sua libertà, della sua leggerezza irriducibile. Ascoltate questo: si impara di più in dieci minuti che da dieci anni di lettura. Ascoltate questo, vi prego, oppure non citate Joyce. Non fate finta di interessarvi a lui – E’ così che comincia un omaggio che Philippe Sollers reca a Joyce nel volume che si intitola appunto “La voce di Joyce” e che prosegue in questa citazione: Che cosa si sente, si intende, si comprende lì per la prima volta? La flessibilità, l’audacia, la molteplicità dei ruoli, dal grave all’acuto, dal sospiro all’urlo, la parodia, la stupefacenza rinnovata, che sia allo stesso tempo acuto, profondo, ma anche al tempo stesso meraviglioso e bellissimo, ma anche stupido, la storia umana, l’emozione delicata, l’imitazione del sospiro e del sospiro del sospiro, la caduta della notte e lo scorrere delle acque e del tempo, la tenacità della vita e la fatica della morte, il rigonfiamento dei fiumi e il rotolare dei sassi, il vento nelle foglie, il gemito della vitalità infantile, la lubricità folle e contenuta, il manierismo femminile. Flip Flep flap flop. Bisogna confrontarsi ascoltando le pagine da 213 a 216 di “Finnegans Wake”. Illeggibile questo libro? Intraducibile? Ascoltate, ascoltate bene. Prima di tutto dal fondo della notte cresce, sale questa voce stranamente rassicurata, un po’ enfatica, ingannevole, resa dura da cento e cento sofferenze, ma sempre melodiosa. Questa voce ferma di cieco che mette da parte i rami e la tenda del sonno. Ed è come se il vecchio Omero, sempre giovane, venisse a voi attraverso la tessitura di mille avventure, di mille racconti, di infinite lingue, di incontri nella sua peregrinazione sottomarina, sillabe che si rispondono e si chiariscono le une con le altre, vivificate da un nuovo soffio. Salvaci, Dio della parola! Per tutti e per tutte ecco il bagliore, lo stupore, la scintilla che non finisce nelle
tenebre, semplicemente le parole, prese in un certo modo, lavorate, rovesciate, avvolte in un certo modo nel suono. Night. Notte. Si attende la resurrezione con una disinvoltura ironica. Wait. E’ l’attesa vigilante verso l’alba, piena di dolore, di false risate, e di compassione. E’ un Opera. E’ un Oratorio. E’ una Messa. Per la fine dei tempi, certamente, ma la fine dei tempi non ha nulla di oscuro e ancora meno di oscurantismo. L’Apocalisse non alza il tono, nulla è senza fine, nessuna disperazione. Cattolico Joyce? Ma sì, al di fuori di ogni devozione stupida, in una camera di eco ardenti e blasfemi. E’ l’istante in cui tutto si innalza e si mescola, in una vibrazione universale e unica”.
Ecco questa bella citazione di Philippe Sollers – lunga forse nella traduzione. Joyce spesso si è lamentato di non avere potuto dare libero corso alle sue doti vocali, e ogni volta che si scoraggiava rispetto alla sua opera letteraria, deplorava la biforcazione della sua carriera, la sua scelta radicale di un certo tipo di “santità letteraria” che implicava l’allontanamento dall’oralità e dal folklore popolare irlandese. Allora proprio all’inizio della sua carriera, Joyce aveva voluto seguire l’esempio di un amico dublinese, il tenore John McCormack, che lo spinse a iscriversi al concorso di canto per il Festival di Falseicoil. Ogni speranza era concessa a Joyce, la cui voce, pura e melodiosa piuttosto che debole, era stata notata da qualche professionista. Nonostante tutti gli sforzi, Joyce, che non aveva tralasciato nulla nella sua preparazione, e grazie anche ad una eccellente prestazione vocale, ha fallito una sola prova, quella del pezzo improvvisato, che bisognava interpretare a prima vista e quindi ha dovuto lasciare la competizione. Questo ricordo biografico non ha altro scopo se non quello di sottolineare una modalità particolare dell’idioma sintetico di Joyce, che lui ha impiegato diciassette anni per elaborare, e che potrebbe caratterizzarsi attraverso una incorporazione della voce nella scrittura. Perché il ritorno prepotente della voce, delle ballate irlandesi, e in maniera più generale di una musica verbale, in “Finnegans Wake” non avviene in nome di una naїveté voluta, assunta, di una semplicità lirica nuova dopo le complicazioni strutturali di Ulisse – Non ne parlerò oggi, ma forse vi farò arrivare un testo per tradurlo.
Paradossalmente più semplice della sua concezione di “Ulisse”, “Finnegans Wake” si fonda su questa stessa disgiunzione tra la voce e la scrittura, che aveva impedito a Joyce di vincere il concorso canoro. Per lo stesso fatto per cui Joyce non arrivava a cantare, se non poteva leggere, né sapeva cantare e leggere contemporaneamente, cioè allo stesso tempo, ogni frase del libro deve essere allo stesso tempo letta e intesa. Ma non è la stessa cosa del fatto che lo si intenda e lo si legga. L’ascolto non è mai identico alla lettura. Non può avvenire allo stesso tempo. Questo è confermato da Joyce stesso, perché
tutte le volte che commenta un passaggio del suo “Work in progress” ai suoi amici, sottolinea che le parole che leggeranno sulla pagina non sono le stesse che sentiranno. E così troviamo in “Finnegans Wake” la frase: “Who ails tongue coddeau, aspace of dumbillsilly?” – citata appunto dallo stesso Lacan – e questa frase, grossolanamente, letta da un anglofono dovrebbe dire, significare: “Chi ha male alla lingua specie di idiota muto”.
Ma bisogna leggerla ad alta voce per sentire: “Où est ton cadeau, espèce d’imbécile? ”, “Dov’è il tuo regalo specie di imbecille?”. Ma un inglese che non conoscesse il francese sarà allertato dalla presenza della parola cadeau, che non significa granché, ma i suoi effetti che si imparano a conoscere, controllare, impadronirsi, si trovano in ogni frase. Cito Lacan a proposito di questa frase:
“La noia [fr. : L’ennui] [3] è che questa omofonia translinguistica si supporta soltanto attraverso una lettera conforme all’ortografia della lingua inglese. Voi non sapreste altro che who per trasformarsi in où (dove), se non sapeste che who in senso interrogativo si pronuncia così. – E questo è proprio in “Joyce il sintomo” – C’e qualche cosa di faunesco-fonico (faun-e-sque; phon-i-que), in questo uso fonetico che riposa completamente sulla lettera, ossia su qualche cosa che non è essenziale per la lingua, ma intrecciato dalle vicende della storia – dice Lacan. “Phone” rinvia alla mitologia, ma anche p, in greco è la ‘voce’ ”. [4]
Ecco quello che dovrebbe dar luogo ad un dialogo triste, ma anche contemporaneamente simpatico, tra un irlandese di nascita e un indigeno vikingo e colonizzatore.
Leggo il brano in francese, cercando di mantenere questo aspetto “fon-esque” e poi cercherò di dare qualche punto di lettura.
Dunque noi abbiamo Jute, il Vikingo, invece Mutt è l’Irlandese.
[Si riporta di seguito il brano preso dal testo originale inglese di “Finnegans Wake”]
Jute. Yutah!
Jute. Are you jeff?
Mutt. Somehards.
Jute. But you are not jeffmute?
Jute. Whoa? Whoat is the mutter with you?
Mutt. I became a stuna stummer.
Jute. What a hauhauhauhaudibble thing, to be cause! How, Mutt?
Jute. Whose poddle? Wherein?
Mutt. The Inns of Dungtarf where Used awe to be he.
Jute. You that side your voise are almost inedible to me. Become a bitskinmore wiseable, as if I were you.
Mutt. Has? Has at? Hasatency? Urp, Boohooru! Booru Usurp! I trumple from rathin mine mines when I rimimirim!
Jute. One eyegonblack. Bisonsis bisons. Let me foreall your hasitancy cross your qualmwith trinkgilt. Here have sylvancoyne, a piece of oak. Ghineeshies good for you.
Mutt. Louee, louee! How woodenI not know it, the intellible greytcloak of CedricSilkyshag! Cead mealy faultyrices for one dabblinbar. Old grilsygrowlsy! He was poachedon in that eggtenticalspot. Herewherethe liveries, Monomark. There where the missers moony, Minnikinpasse.
Jute. Simply because as Taciturnpretells, ourwrongstory-shortener, he dumptiedthe wholeborrowof rubba-ges on to soil here.
Mutt. Just how a puddinstoneinatthe brookcellsby ariverpool.
Jute. Load Allmarshy! Widwadfor a norse like?
Mutt. Somularwith a bullon a clompturf. Rooks roarumrex roome! I could snoreto him of the spumyhorn, with his woolseleyside in, by the neckI am suttonon, didBrian d’ of Linn.
Jute. Boildoyleand rawhoney on me when I can beuraly forsstanda weirdfrom sturkto finnic n such a pat-what as your rutterdamrotter. Onheardof and um-scene! Gutaftermeal! See you doomed.
Mutt. Quite agreem. Bussave a sec. Walk a dunblink roundward this albutisle and you skull see how olde ye plaine of my Elters, hunfree and ours, where woneto wail whimbrel to peewee o’er the saltings, wherewilby citie by law of isthmon, where by a droit of signory, icefloe was from his Inn the Byggning towhose Finishthere Punct. Let erehim ruhmuhrmuhr. Mearmerge two races, swete and brack. Morthering rue. Hither, craching eastuards, they are in surgence: hence, cool at ebb, they requiesce. Countlessness of livestories have netherfallen by this plage, flick as flowflakes, litters from aloft, like a waast wizzard all of whirlworlds. Now are all tombed to the mound, isges to isges, erde from erde. Pride, O pride, thy prize!
Jute. Stench!
Mutt. Fiatfuit! Hereinunder lyethey. Llarge by the smal an’ everynight life olso th’estrange, babylone the great-grandhotelled with tit tit tittlehouse, alp on earwig, drukn on ild, likeas equal to anequal in this sound seemetery which iz leebez luv.
Jute. Zmorde!
Mutt. Meldundleize! By thefearse wave behoughted. Des-pond’s sung. And thanacestross mound have swollupthem all. This ourth of years is not save brickdustand being humus the same roturns. He who runes may rede it on all fours. O’c’stle, n’wc’stle, tr’c’stle, crumbling! Sell me sooth the fare for Humblin! Hum-blady Fair. But speak it allsosiftly, moulder! Be inyour whisht!
Jute. Whysht?
Mutt. The gyant Forficules with Amni the fay.
Jute. Howe?
Mutt. Here is viceking’s graab.
Jute. Hwaad!
Mutt. Ore you astoneaged, jute you?
Jute. Oyeam thonthorstrok, thing mud.
Flavia Gojan : Difficile? É la traduzione di Andrè Du Bouchet che comunque è un poeta.
Muriel Drazien : Non è sicuro che sia più comprensibile in inglese?
Flavia Gojan : Ho trovato comunque questa traduzione di un poeta, Andrè du Bouchet, ma non è detto che leggerla in inglese sia più comprensibile, però cerchiamo di dare una spiegazione, almeno di una parte, quello che possiamo cogliere attraverso questi due personaggi Jute e Mutt.
Prima di tutto c’è un incontro e vi è una condensazione fra una formula di saluto e la presentazione di ognuno di essi. Se Jute dice: “ Yutah!”, al posto di dire: “Buongiorno mi chiamo Jute!”. E Mutt potrebbe dire: “Mi chiamo Mutt, piacere di conoscerla”, invece dice “Mutt’honoré” (inglese:Mukk’s pleasured). In francese si sente molto, e significa “molto onorato”, cioè si usa con lo stesso valore dell’avverbio davanti agli aggettivi. Jute dice: “Tu fou”, “Sei folle ?” e si sente “fur” e anche “sourd”, sordo. Mutt risponde ”Durfoi” ma si sente dentro anche la parola che corrisponde all’espressione “être dur d’oreille” (essere duro di comprendonio), e anche “fois” (talora).
Flavia Gojan : E’ molto piacevole all’orecchio sia in francese sia in inglese. Posso dare ancora un altro esempio: “Esto mé a marmuttè”, “Tocca a me a mormorare”.
Muriel Drazien : In inglese sarebbe “stummer”, deformazione di “stutter”, che vuol dire “balbuzie”.
Flavia Gojan : Ma “marmuttè” integra il nome di Mutt all’interno della parola.
Cercherò di spiegare meglio quello che avviene in questo passaggio. Questo frammento, molto ben tradotto da André du Bouchet, mostra che possiamo cogliere con “Finnegans Wake” una musica verbale completamente particolare, in cui i ricordi, i riferimenti di cliché di formule fisse wagneriane – non certo solo in questo frammento, ma in tutta l’opera di “Finnegans Wake” ci sono riferimenti wagneriani – non sono altro che decorazioni musicali di ciò che si impone come un’immaginazione sulla storia irlandese, con tutte le lingue che si mescolano e quindi liberano la loro potenzialità poetica. Questo passaggio indica anche come Joyce giochi con le evocazioni storiche e mitiche. Mutt l’irlandese e Jute il danese o norvegese sono anche i personaggi di fumetti americani. E Mutt, insieme a Jeff, che contempla la regione di Dublino – verso i promontori di Howth presso Clontarf, battaglia in seguito alla quale gli irlandesi guidati da Brian Boru respinsero i danesi nel 1014 – sono anche due archeologi, che esaminano i resti di un tumulo e che meditano come filosofi sulla vanità delle imprese, soprattutto se le lotte con gli autoctoni finiscono sempre con una mescolanza di sangue e razze. Joyce prende ancora di
più le distanze nell’episodio di Itaca, perché si pone più lontano da ogni particolarità storica per descrivere una commedia che è quella dell’umanità intera, ma si avvicina tuttavia al suolo materiale dell’umano, questo terreno o humus linguistico che ha conservato tutti i dettagli, tutte le particolarità dei racconti.
Cito ancora un piccolo passaggio da “Finnegans Wake”:
[… Testo in francese non reperito …]
Non è facile trovare qui risonanze, ma si capisce che sta trattando di humus e di lettera. La commedia universale si declina come tante lettere, rune, da decifrare nel bel mezzo di quello che è dei resti. Nessuno dimentica se il lavoro implicato in una lettura che, se suppone l’oralità dei discorsi, dei due clown che si comprendono a metà, accumula echi deformi e qui pro quo, insiste anche sul paziente riconoscimento e sulla ricostituzione di queste tracce materiali che sono le lettere. Come abbiamo sentito poco fa nel passaggio le “letter from litter”, lettere, spazzatura nell’aria, “litter”, che cadono come dei fiocchi di neve sulla pianura di Dublino, rinviano sempre sia alle lettere che ai detriti. “Litter” significa spazzatura. Equivoco questo, fondamentale nella lingua di “Finnegans Wake” perché la grande lettera che dovrebbe raccontare le origini – è questa una delle questioni di “Finnegans Wake”. – è descritta come nascosta in una collina di sterco e scoperta per caso nel momento in cui una gallina rovista là dentro. Se l’”Ulisse” prende la sua trama dall’”Odissea”, “Finnegans Wake”, libro mostruoso, proliferante, dai limiti confusi tra scrittura, canto e preghiera, potrebbe invece essere paragonato agli scavi archeologici che ridanno corpo alle leggende di Troia. Il lettore è come un archeologo, deve esaminare subito degli oggetti non identificabili, è un tumulo celtico, una nave funeraria vichinga, resti di fondazioni anglosassoni, una tomba egiziana, un palinsesto di testi religiosi diversi, lasciati da un copista del tardo periodo del monachesimo irlandese. Sembra che sarebbe stato difficile andare più lontano, dopo “Ulisse”, nel rovesciamento della tecnica romanzesca, ma tuttavia è questo che realizza “Finnegans Wake” al di là di ogni limite concepibile. “Ulisse” sembrava avere utilizzato tutte le risorse del linguaggio, “Finnegans Wake” conduce il linguaggio al di là di tutte le possibilità di comunicazione; “Ulisse” si presentava come il più audace tentativo per dare una rappresentazione, un volto al caos, “Finnegans Wake” si definisce esso stesso come un caosmos (caos-cosmos) e un microcaosmos e costituisce il più terrificante documento sulla stabilità formale e sull’ambiguità semantica. “Ho inviato il linguaggio a letto. Sono a capo dell’inglese” – E’ attraverso questi termini che Joyce descrive l’operazione che compie. E Lacan si riferisce a Sollers:
“Da quando “Finnegans Wake” è stato scritto – dice Lacan – l’inglese non esiste più in quanto lingua autosufficiente, non più d’altronde di qualsiasi altra lingua. Joyce introduce un rapporto permanente del senso di una lingua ad una lingua, da enunciato singolare a enunciati plurali, di puntualità del soggetto dell’enunciazione a serie. Joyce è tutto una demografia” – E’ questa la citazione che Lacan fa di Sollers.
L’ordine è diventato la presenza simultanea di ordini diversi. Per esempio “Ulisse” è preoccupato di trovare un ordine, e quindi, diversamente da “Ulisse”, “Finnegans Wake” è diventata la presenza simultanea di ordini diversi. Appartiene ad ogni lettore scegliere il proprio. Come dice Umberto Eco: “’Finnegans Wake’ è un’opera aperta”. Ed è a questo titolo che si autodefinisce successivamente come scarssorrade, si sente scherzo, sciarada e anche la storia di Sherazade; … si sente il ciclo, la misura, Vico, Giovanbattista Vico; collidoscopio, invece che caleidoscopio, caleidoscopio di collisione; proteiformograph, dove si sente proteiforme, grafia, grafia proteiforme, palihedromonscripture; mindertale, racconto, discorso, che comporta dei meandri, valle in forma di labirinto, (tal significa in tedesco vallata), labirinto primitivo, con un’allusione all’uomo di Neanderthal (mindertale; Neanderthal) – sono dei significanti in “Finnegans Wake”.
E’ un’opera in un certo senso su se stessa o quindi un’opera in cui si trova un richiamo alla duplicità e alla mescolanza della significazione. Ma la definizione più completa di quest’opera, descritta come “sleeping beauty”, ma attenzione che non si scrive però come lo si scrive abitualmente, ma si scrive “slipping beauty” – slipping significa in inglese scivolamento, lapsus – per associazione dell’idea del lapsus con il racconto della Bella Addormentata nel bosco e con il delirio onirico. Questa auto-definizione di “Finnegans Wake” si trova nella famosa “lettera illeggibile” nel capitolo cinque del libro. Lettera illeggibile, perché precisamente la si può interpretare secondo una moltitudine di sensi, come il libro stesso e l’universo di quel libro di cui la lettera è l’immagine.
E’ difficile, mi scuso se la trasmissione può sembrare rudimentale, perché è un testo scritto.
Come procede questa nuova lingua? Una lettera di Joyce a Miss Weaver contiene un commento di Joyce ad una frase di “Finnegans Wake” appartenente ad Anna Livia Plurabelle con questa proposta di traduzione operata da parte di Joyce.
Ho trovato questa lettera, anche in francese, nella corrispondenza di Freud:
“La tecnica del calambour poliglotta è l’aspetto più immediato ed anche più sconvolgente di “Finnegans Wake”. L’operazione di scrittura si caratterizza attraverso due tratti spettacolari e allo stesso tempo enigmatici. Prima cosa: una polinominazione vertiginosa, che dà luogo a livello della trama narrativa, che è interamente e costantemente scossa dalle basi, ironizzata, dagli interrogativi sempre ripresi, interrogatori, tentativi di analisi di un documento ritrovato per caso etc.”
Processo di una interpretazione in progress, che non arriva mai veramente al punto ma il cui percorso nella impossibilità stessa della sua chiusura risponde per così dire ad una quadruplice sollecitazione, che non è a suo modo senza ricordare, – come Sollers lo ha già sottolineato a proposito di un’altra cosa, quando aveva parlato della “trifid tongue”, la lingua trifida in “Finnegans Wake” – ecco questo processo di interpretazione in progress rispondeva ad una quadruplice sollecitazione che poteva corrispondere alla sovrapposizione dei quattro sensi praticati da Dante. Faccio riferimento a questo perché ne parla Sollers. Esiste un libro bellissimo di Adaline Glasheen, che è arrivato alla terza edizione, che reperisce tutti i personaggi e i loro ruoli in “Finnegans Wake”, centinaia e centinaia di operazioni di nominazione, di cui tenta di recuperare i riferimenti storici, anche se l’essenziale consiste nell’effervescenza in cui tutti i nomi della storia si ritrovano implicati. Nella biografia di “Finnegans Wake” la fermentazione delle parole, fermenting words, uno dei punti più singolari, mi sembra, è quello che potremmo dire dei nomi fermentati, fermented names, che diventano (o che diventa) James Joyce, cioè il nome di Joyce. Un’identità in stato di declinazione perpetua, atomi-lettere di Lucrezio, le cui agglutinazioni sorgono attraverso agglutinazioni nominali provvisorie di una scrittura che fa il vuoto delle lingue perché polverizza, attraverso il suo ridere, ogni tentativo di fermare la germinazione infinita. Lo scritto si innesta sul gesto attraverso il quale qualcuno è detto fermarsi, cioè fare accedere il proprio corpo alla dimensione simbolica, attraverso una nominazione contemporaneamente tripla e una, “Letter from litter”, “Lettera da spazzatura”. In “the name of Anhem”, prima occorrenza della formula sacramentale che si ripeterà lungo tutto il testo, (“in the name of the former” ; “in the name of the later”…) e ancora, “Miss odle … of Amenh” – sono dei pezzi di sintagmi ripresi da “Finnegans Wake”.
Tutti questi nomi sono attraversati dalla questione della nominazione. Ne ho preso qualcuno qui che si può far circolare tra di voi. Dunque Anhem , nel primo si sente “nome” , come anche in “anhems” si sente “nomi” e anche …
Muriel Drazien : Ma anche Shame Joyce.
Flavia Gojan : Ma anche un nome, ma anche anonimo, senza nome,
Carlo Albarello : Odisseus.
Flavia Gojan : Odisseus esattamente. Ma che si potrebbe così tradurre, sviluppandolo in questo modo: in nome di un nome anonimo, iscritto in ogni nome, di cui ognuno spera che gli capiti, dal momento che nessun nome particolare saprebbe contenerlo. Ripeto? Dunque: in nome di un nome anonimo, iscritto in ogni nome, di cui ognuno spera che gli capiti, dal momento che nessun nome particolare saprebbe contenerlo.
Il secondo tratto spettacolare, come anche sorprendente, è la poliglossia straordinaria di “Finnegans Wake”, una quarantina di lingue sollecitate secondo una frequenza variabile, attraverso dei frammenti sillabici, fonemici o grafici, sequenze di discorso e altro. Là il fatto è presente come enigmatico ed è forse da mettere in relazione con la passione per il simbolico che non ha mai cessato di animare Joyce.
Flavia Gojan : In una cartolina postale molto ironica, si presenta a Miss Weaver come un guidatore di treni, un ingegnere, che avrebbe appena fabbricato una macchina rivoluzionaria. E per questo Deridda aveva parlato di processo joyssiale, Joyce-la macchina …
Carlo Albarello : E’ un termine comune in quel periodo … Le Corbusier, la machine à habiter…
Flavia Gojan : Sì. Vi cito questa cartolina:
“Tutte le macchine che conosco non funzionano. Semplicità. Fabbrico una macchina con una sola ruota. Senza raggi, naturalmente. La ruota è perfettamente quadrata. Vedete bene cosa voglio dire, non è vero? Attenzione, sono molto serio. Non pensate che si tratti di una stupida storia. No. E’ una ruota, lo proclamo. Ed è completamente quadrata”.
La quadratura del cerchio descrive la costruzione del libro. L’ultima frase, incompleta, si allunga senza un punto finale con questo stilema “along de” per farci ritornare alla prima parola “River past Eave and Adams”, e così anche il libro si divide in quattro parti, e questo spiega come mai il simbolo per “Finnegans Wake”, nelle sigle, sia un semplice quadrato. Ma nonostante tutto, questa ruota deve girare, avanzare, anche se per ritornare al medesimo punto. A questo proposito, un giro di parole ha trattenuto la mia attenzione: “a worp in process” che risuona con “work in process,” da “to worp”, che in inglese significa “fermentare, dissociare, falsificare, pervertire”. L’immagine è evidentemente da mettere in rapporto con il tema della ruota quadrata, di cui Joyce comunica l’espressione a Miss Weaver, per cercare di chiarirle quello che sta realizzando. Una ruota quadrata che gira, naturalmente, ma non semplicemente unitamente rotonda, ma al contrario, per la logica stessa del dispositivo, una ruota che gira con un processo che è deformato dal momento che sta deformandosi ad ogni momento della rotazione. E in questa traccia ritorna su queste tracce nonostante non siano mai le stesse. “In the mighty etc …”.
Ed ogni volta con una piccola differenza, dell’ordine che appartiene all’infinitesimale, inscrivendosi qui nel Wake attraverso la dissoluzione, l’annullamento; uno scritto segna il ritorno, “le ritornità” dello stesso nell’altro votato alla sua propria disparizione. Wake significa … “Siage of work in progress”,“Derapage repeté”. Un andare fuoripista ripetuto, sconfinamento ripetuto attraverso i limiti di quaranta lingue di cui una la maniera James Joyce di effettuare la loro quadratura. Forse a ciò si riferiva Joyce, quando parlava della costruzione matematica di “Finnegans Wake”. L’operazione di “circle in the square” può effettuarsi solamente attraverso un’inclusione nello scritto del soggetto dell’enunciazione, la cui identità, un nome come un limite da superare, si apre deliberatamente al tracciato di alcuna lingua, che si serve di ogni lingua per favorire la chiusura delle altre – Riprendendo l’osservazione di Joyce annotata da Ellmann, ossia, cito:
“Una scrittura che sia un meccanismo largamente emozionale realizzato attraverso il filtraggio e l’agglutinazione”.
Sollers definisce molto bene l’operazione nel suo “Joyce et compagnie”, lo cito :
“Qualcuno ha detto l’altro giorno che Joyce aveva fallito perché nonostante tutto aveva mantenuto una lingua di base, l’inglese, ma credo che non bisogna parlare di lingua di base, ma di lingua-filtro. L’inglese è per Joyce è un angolo e questo filtro deve aprire da un lato su tutte le lingue, dall’altro su ciò che non ha lingua, propriamente detta, ossia l’inconscio. Joyce inventa un filtro, in senso matematico, di una potenza considerevole, facendo comunicare processi inconsci e i processi storici delle lingue. E’ là il suo obiettivo fondamentale. Per rendere le lingue visibili, analitiche, per farle analizzarsi reciprocamente, le une con le altre, bisogna filtrarle, scriverle da sotto, e far risalire il loro deposito mnesico e scrivere in esse attraverso esse un’interpretazione in atto. E’ questo accompagnamento melodico, fluente, che non si può cogliere, di interpretazione reinvestita in un effetto di scrittura-suono, che resta invisibile, ma che scatena un effetto di rilievo permanente, presente in ogni luogo”.
La nozione di filtro e di filtraggio, così definita, permette veramente meglio di comprendere il senso della agglutinazione praticata da Joyce [1.12 ….] agglaggagglomeratively asaspenking che si deve intendere in due modi, ossia nella sollecitazione di una molteplicità delle lingue e nella attraversata di un nome che è James Joyce, senza contare chiaramente se non sui piani delle trame narrative messe in gioco. Il balbettio di cui si segna il sintagma citato può essere interpretato come sintomo di ciò che manca, di ciò che fa sbaglio, peccato, nell’avventura di questo o di quello. Ma ancora una volta, nel momento in cui si rimane attaccati al racconto, si rischia sempre di dimenticare l’essenziale, che risiede proprio nell’operazione stessa del Wake come scrittura, prendendo in carico gli effetti di sins/peccato,senso, e sciogliendoli, stemperandoli in quanto sintomi.
Umberto Eco precisa che se il lettore ideale di questo libro è insonne, the ideal, è quello che Joyce indica, desidera, per il suo libro. Se il testo è aperto a una semiosi infinita, a una decifrazione senza fine, tuttavia ci sono delle regole da rispettare in questo processo di interpretazione. Infinito non è identico a qualsiasi cosa, insomma non si può trovare quello che si vuole a caso in “Finnegans Wake”. Il lettore joyciano ideale, che è colpito da un’insonnia ideale, è, sembra, il modello supremo del lettore decostruttivista, per il quale ogni testo è un incubo senza fine. Ma, in altre parole, vi sono dei lettori che “Finnegans Wake” non accetta, non permette “Finnegans Wake”, che è un’immagine soddisfacente dell’universo della semiosi illimitata, giustamente perché è pienamente un testo. Infatti coloro che proiettano le loro interpretazioni in modo soggettivo sono le prime vittime della trappola preparata da Joyce stesso, che non cessa di descrivere il proprio testo in termini fluidi e incerti per insistere sulla relatività generalizzata, rilanciare la macchina verbale, e illimitare l’interpretazione.
Vi cito un passaggio di “Finnegans Wake” dove descrive il modo in cui questa macchina procede:
“Ogni persona luogo e cosa che appartiene al tutto di questo caosmo è legato in un certo modo a questa turcheria picaresca si commuove cambia ad ogni momento la penna vagabonda forse anche lo stesso contenitore per l’inchiostro la carta e la penna che giocano alla lepre e la tartaruga alla libera associazione come anticollaboratori allo spirito continuamente mal compresi mentre la costanza del tempo sarà indotta in modo variabile in modo di produrre vocaboli e scritto-segni dal senso mutevole pronunciati differentemente, ortografati differentemente”. [5]
Gli anticollaboratori rinviano all’idea di Joyce che il suo libro era in effetti scritto per tutti, “Here comes everybody”, questo designa non soltanto l’eroe archetipo, ma anche il lettore inserito forzatamente nel testo, non soltanto i suoi amici e i suoi collaboratori come Frank Budgen, Samuel Becket, Eugene Jolas, Paul Léon e qualche altro, incaricati di copiare alcuni passaggi del libro da citare, di compilare liste di parole straniere classificate per tema e di sistematizzare l’enciclopedismo di un progetto che oltrepassava i campi di una competenza individuale, ma anche tutti quelli di cui sentiva le parole involontarie che citava nel suo testo. L’autore si pluralizza per scomparire e lasciare la responsabilità di senso al lettore, a condizione che accetti e comprenda bene le regole e le leggi di questo testo e che ne persegua la logica di base perché, come lo stesso passaggio precisa, il lettore non può evitarsi, a torto o a ragione, di attendere un chiarimento, si attacca con tutte le sue forze a questa speranza ed ecco che cosa dice Joyce di questa “machine”, di questo processo:
“Sperando contro ogni speranza che durante tutto questo tempo alla luce della filosofia forse possa giammai renderci folli. Le cose vanno un po’ a chiarirsi in un modo o nell’altro nel quarto d’ora successivo e cesseranno di combattere una lotta impari a dieci contro uno, facendo la pace, come dovrebbero, ancora più categoricamente ossia, detto proprio fra noi e noi, che esiste un limite ad ogni cosa e che quindi questo non funzionerà”.[6]
Questo gioco un po’ perverso, con dei limiti negati così come posti, rilancia senza posa la macchina verbale in una lingua fabbricata da ogni pezzo che ricorderebbe lo Jabberwocky di Lewis Caroll o le creazioni verbali di Rabelais, e di cui si è impossessato Joyce dopo molti anni di lavoro e il cui procedimento fondamentale è la coincidentia oppositorum, ossia nella misura in cui ogni frase può essere letta secondo più registri lessicali, significa almeno due cose, quasi sempre contraddittorie. Così l’ultimo monologo di addio di Anna Livia prende il termine “lot” come perno della sua ambivalenza perché questa parola mescola “love”, “amare” e “loath”, “detestare,odiare”: “All my life I’ve been living … but now they’ve been loteed to me …”. E’ così che il testo mima il lavoro del sonno presentandosi come un gigantesco rebus poliglotta. I rinvii intertestuali prendono allora una funzione significante maggiore: è la scelta dell’isotopia semantica che determina il senso da leggere. E allora la responsabilità del lettore si carica, si appesantisce di un compito nuovo, perché nessuno può ignorare che in ogni momento fabbrica il senso del testo, a partire dal caos verbale di ogni pagina. Quindi sta al lettore di vocalizzare (fonare) il testo di Joyce e, come dice Lacan, c’è un godimento in questo rimettere all’Altro la funzione della voce. La forza del testo risiede precisamente nella sua ambiguità permanente, nella continua risonanza di un grande numero di sensi, ognuno dei quali autorizza la selezione senza lasciarsi mai dominare da quella. Prendiamo un esempio come “sans gloriance”. Si situa nel contesto di una confusa ed antichissima battaglia che oppone rane, ostrogoti, visigoti, clan celtici e sarabande di armati, gridi di guerra, colpi di cannone. In questa parola troviamo le radici di “sang”, “sanglot”, “gloria”, “glory”, “glorians (sangue, singhiozzi, gloria) neutralizzati in francese dalla suggestione del “senza” (sans). Questa parola può significare “voi che combattete senza gloria” oppure “nel sangue e nella gloria” oppure anche “nei singhiozzi, nel sangue e la gloria”, a meno che non sia “senza singhiozzi né sangue né gloria”, etc.. Che cosa resta di tutto questo? Il senso della battaglia, l’idea della battaglia, con tutte le contraddizioni che ella comporta, la battaglia come presenza di rumori, opposizioni di valori e di passioni.
Senza farsi troppe illusioni sul valore scientifico del suo nuovo gergo, Joyce presentì che il suo tentativo poteva annunciare la lingua multipla di un’Europa da costruire, una specie di esperanto, che immaginava costituita sul modello dell’italiano, tessendo ed intrecciando i suoi dialetti per dare un balbettio babelico strutturato direttamente sull’inglese – lingua alla quale Joyce riconosceva, malgrado tutto, una certa preminenza, più per ragioni storiche che per la sua ricchezza e flessibilità. Balbettio babelico in cui vengono a incrociarsi le lingue latine, francese, italiano e spagnolo, le lingue nordiche e le varianti scandinave, anche celtiche, senza dimenticare la presenza di lingue slave, molto presenti nel Libro Terzo, e senza contare le incursioni negli idiomi arabi, africani e orientali.
Nella sua ultima opera Joyce raggiunge le intuizioni che aveva sviluppato, certo con qualche difficoltà, in uno dei suoi primi saggi, un testo composto in quanto studente all’età di circa diciassette anni, probabilmente nel 1899, intitolato “Lo studio delle lingue”. In questo saggio Joyce parte dall’idea che la grammatica, ossia etimologicamente “la scienza delle lettere”, è la scienza fondamentale, esatta e precisa quanto l’aritmetica, ed è questa la base sicura su cui si fonda lo studio delle lingue individuali.
Cito questo studio di Joyce:
“Ora lo studio delle lingue è basato su una base matematica assicurata e di conseguenza gli sviluppi dello stile come quelli della sintassi sono sempre molto lenti. Questa prudenza viene precisamente da questo spirito di precisione che presiede alla loro origine. E più avanti aggiunge che la storia delle parole non è senza rapporto con la storia degli uomini”. [7]
Come Mallarmé, Joyce crede che la scienza fondamentale parta dal linguaggio e ritorni al linguaggio, che scopra le leggi della sua essenza, e che la spieghi attraverso lo studio delle lingue particolari. Joyce era affamato di lingue nuove e padroneggiava bene una decina di lingue europee. Il suo nuovo idioma mira a ricreare in un istante il paziente e rigoroso lavoro delle lingue.
Jacques Mercanton in “Le ore di James Joyce” si fa testimone di questa ambizione mimetica e allo stesso tempo demiurgica. Ecco che cosa dice:
Più tardi mi spiegherà sulla base di questo o quell’esempio occasionale la maniera attraverso la quale lavora attraverso delle leggi fonetiche precise, quelle che regnano nelle lingue e presiedono alla loro evoluzione, perché allo stesso tempo per lui significa obbedire alle leggi della storia. Così la sottomissione rigorosa ai fenomeni del linguaggio gli deve garantire la verità della sua conoscenza e della sua rappresentazione degli elementi. La sola differenza – dichiara Joyce – è che, come ad imitazione del sogno, opero o realizzo in qualche minuto ciò che ha avuto bisogno di secoli per prodursi.
Il riferimento al sogno indica bene la parte di creazione da parte dell’autore attraverso il quale la lingua sogna il suo divenire, dalle sue origini fino ad una fine incerta. Sogno od incubo linguistico della Storia, con la S maiuscola, questa lingua plurale finisce spesso per abolirsi in una pura musica che parla al cuore nei suoi ritmi anglo-irlandesi emozionanti, come lo rivela la splendida registrazione alla fine del capitolo Anna Livia Plurabelle, dove Joyce lascia passare tutta la poesia a tutto l’aspetto patetico del suo testo. E’ questo testo che Sollers, che vi ho citato all’inizio della mia esposizione, invitava a leggere – testo che si trova molto facilmente su internet.
[1] Marcel Czermak, “L’homme aux paroles imposée”, in Patronimyes. Considérations cliniques sur les psychoses,Toulouse, Éditions érès ,2012.
[2] [N.d.T.] Traduzione consecutiva dal francese.
[3] [N.d.T.] Nell’edizione italiana il termine ‘noia’ è tradotto ‘la cosa inaudita’ [inouї]. Cfr.: J. Lacan, Il Seminario libro XXIII, Il Sinthomo, Roma, Astrolabio 2006, pag. 162.
[4] [N.d.T.] Traduzione consecutiva dal francese.
[5] [N.d.T.] Traduzione consecutiva dal francese.
[6] [N.d.T.] Traduzione consecutiva dal francese.
[7] [N.d.T.] Traduzione consecutiva dal francese.
Trascrizione a cura di Tiziana Benini e Paola Giovani, non rivista dall’Autrice.