Trasmissione e/o insegnamento – di Lucien Israel

Venticinque anni d’insegnamento avrebbero dovuto permettermi di parlare senza note, addirittura d’improvvisare. E invece vi leggerò ciò che ho scritto. Vedete in questo un segno di riguardo verso coloro che sono voluti venire ad ascoltarmi.

Nachträglich. Après-coup. È così che vorrei tentare di designare il punto da cui parlo. Ma dopo quale colpo? Di quale brutto tiro sono stato la vittima o l’autore inconscio? È solo quando qualcosa è passata o superata che ci si può situare nachträglich per testimoniarne. Vale a dire che se ne può fare testamento.
Ma non posthumons [gioco di parole tra l’aggettivo posthume: postumo; e il verbopostuler: postulare N.d.T.] troppo in fretta. Per poter riportare qualcosa, occorre che questa cosa sia terminata. Occorre che un atto sia realizzato, attuato. Il che non implica che tutto sia compiuto. Anche quando ci si crede svuotati c’è forse ancora qualcosa da dire.

Ho cominciato a redigere queste note a Tel Aviv. A Tel Aviv che non figurava affatto sulla mappa della Terra promessa all’epoca della promessa. Di trovarvisi, permette di cogliere meglio ciò a cui Mosè fu condannato, diciamo così, a causa del suo peccato. Egli fu condannato a non potere mai penetrare in questa terra. Il che, indubbiamente, gli ha permesso di farne un oggetto di speranza e di credere che essa fosse realmente una ripetizione del giardino dell’Eden. La realtà quotidiana, ovunque essa sia, forse è solo il contenuto manifesto della promessa. Il che non impedisce che le cose, anche il desiderio, si trasmettano. Tuttavia, anche il profeta trasmette controvoglia.
Trasmissione della psicanalisi: che cosa può restare a colui che trasmette se non è stato altro che colui che trasmette, uno staffettista. Uno staffettista al quale s’inietta e che restituisce o che instrada. Fortunatamente questo tragitto, che forse sarebbe quello dell’insegnamento, si complica con i problemi della scatola nera. La scatola nera è modificata in base a ciò che vi si inietta, e ciò che essa emette dipende dallo stato in cui l’ha lasciata l’iniezione; è quel che possiamo intendere nell’iniezione di Freud da parte di Irma.
E sì, sto per barare: sto per fare qualcosa che non si fa. Fare cose che non si fanno è una vecchia abitudine. Non mi hanno insegnato cosa si fa. Questa volta, ho scelto di aprire la scatola nera anche se, poco fa, la stampa (presse) c’insegnava che Lacan non avrebbe desiderato che un giorno si aprissero fagioli in casseruola. Poiché anche questaNachträglichkeit di cui parlo è essa stessa una rappresentazione di questo: che la scatola nera dell’inconscio, una volta venuta alla luce, non è più così chiusa, così stagnante come [lo era] prima che fosse socchiusa.
Parlerò dunque di un tempo e di un luogo situati dopo l’apertura, per tentare di cogliere i meccanismi di questo après-coup, i suoi meccanismi e i suoi effetti, tutte cose legate, poco o tanto, alla questione di una trasmissione.
Quando, orami più di un anno fa, fu proposto il tema della trasmissione della psicanalisi, scrissi con entusiasmo ai miei amici parigini per dire loro che questo tema m’interessava, poiché sul momento ero stato colto da un’illusione pretenziosa, o ero stato vittima di questa illusione: avrei amato di poter contribuire a questa trasmissione, apportarvi – come diceva Lacan – la mia piccola pietra. Era un auspicio. Di fatto, ne sono stato soprattutto il testimone.
Passato questo momento d’entusiasmo, cominciai a pentirmene il che è la marca di un’antichissima lassitudine. Cominciai a sperare che ci si scordasse di questa lettera. Che s’incaricassero di disilludermene. Fui tentato di defilarmi, come ogni volta che mi si chiede di produrre qualcosa al cospetto di persone che amo e la cui stima mi è preziosa. Improvvisamente, divengono temibili. Paura di perdere l’amore dell’Altro, si dice.

A dire il vero non hanno più la freschezza di un tempo. Essere privato d’amore ha smesso di terrorizzarmi. Non avere più niente da perdere è ancora una speranza isterica?
A lungo ho creduto che le società di psicanalisi fossero classi riservate ai superdotati – e quando dico classe intendo riserva, per non dire campo di concentramento. Io non sono un superdotato. Ma sono divenuto meno razzista verso coloro che sono diversi da me.
Resta comunque qualcosa al punto che i miei amici, intendo coloro che mi vogliono bene, non mi nascondono che a volte deplorano la mia fobia della teoria.
L’interpretazione di questa fobia mi ha vinto, non durante la mia analisi che chiamerò personale e dirò perché, ma molto tempo dopo, anche molto recentemente. Malgrado tutto, lo vedete, il virus della psicanalisi, è duro da estirpare. Contro di esso disponiamo solo di batteriostatici e non di battericidi, altrimenti non sarei qui.

Ritorniamo alla fobia della teoria. Cominciavo a prender nota su questo e ecco sotto la penna scivola un lapsus: avevo scritto non fobia della teoria, ma fobia della terrorie. Questa R di troppo faceva di nuovo aprire la scatola nera che avevo, con troppa fratta, considerata definitivamente chiusa, tappata (fr. bouchée), dura di comprendonio s’intende [gioco di parole che aggancia l’ultimo termine, bouchée, ad un’altra significazione perchéêtre bouché à l’émeri significa proprio essere duri di testa N.d.T.].
Il terrorismo, in tutte le sue forme, mobilita. Difendo la mia pelle e preferisco lasciarla nella lotta (lutte) piuttosto che nella fuga (fuite). Israël oblige. Una parola è qui necessaria per coloro che si accontenterebbero troppo in fretta di un riferimento politico: Israele è il nome che fu dato a Giacobbe, in après-coup, cioè dopo il combattimento.
Le teorie terroristiche, come lo stesso terrorismo, m’ispirano non una fobia, ma un ardore capace di risvegliarmi. Se fobia vi fosse, sarebbe da ricercare dal lato di una fobia del lavoro, quel lavoro che – anche Lacan lo ha ricordato – è innanzitutto uno strumento di tortura, il tripalium, che è anche uno arnese per tenere i cavalli quando li si ferra, [quel lavoro] che è stata la prima maledizione e che, attualmente, è spesso solo un sintomo nevrotico, una protezione dal fantasma. Credo di aver letto un’espressione di questo genere in un testo della Scuola, non so più scritto da chi. Mi scuso subito di non citare nessuno: mi capita di leggere, ma una volta letto, faccio tesoro di questi testi. Sono dunque questi che saccheggerò e a coloro che si riconosceranno vanno le mie scuse. Approfitto così dell’anonimato che è in vigore in Scilicet e di cui possono probabilmente beneficiare gli autori, che vogliano farne domanda, in numerose altre pubblicazioni. Ciò fa sì che a lungo creduto, forse era vero questo, di lavorare come dilettante e non come professionista, nel senso sportivo del termine fin quando non sono giunto ad un altro punto di vista, che poi dirò. Mi sono a lungo chiesto se, sul piano pratico, o piuttosto nella pratica, non era più auspicabile che lo psicanalista lavori da dilettante. In seguito credo di aver trovato una risposta. Forse la passe è il passaggio dal dilettantismo al professionismo. Dopo questo passaggio, il desiderio non è più implicato nello stesso modo in questa pratica. Forse avremo occasione di tornarci su.
Non abbiamo affatto terminato con questa fobia della teoria. Era essa che, probabilmente, mi aveva fatto scegliere uno dei miei primi temi di cartel al tempo della formazione dell’École, vale a dire un lavoro sullo Schlemihl. Questo significante beffardo, ma non sprovvisto di tenerezza, designa uno dei personaggi del folklore yddish la cui funzione di mediatore umorista chiarisce un po’ i giorni oscuri delle comunità ebraiche dell’Europa Centrale.
A volte, ero tentato di presentarmi sotto forma dello Schlemihl, il cui studio etimologico, fatto a quell’epoca, si rivelerà di una ricchezza inattesa ma che non riprenderò in questa sede perché, lo confesso, non ho avuto il coraggio di andare a frugare nei miei archivi per ritrovarlo in modo dettagliato. Ma lo stesso Freud ha nobilitato il significante Schlemihlutilizzandolo in un’interpretazione. Non aveva trattato da Schlemihl quel tale che era stato sul punto di preferire la masturbazione ad un appuntamento galante? A mia memoria, aveva preferito una seduta di psicanalisi a quell’appuntamento. Strana confusione! Credo che così, a sua insaputa, Freud riannodava [faceva dei nodi] con l’etimologia.

Il personaggio dello Schlemihl gioca all’interno delle comunità ebraiche un ruolo polimorfo, ma sempre in relazione con la tradizione. Appare sotto forma del paraninfo, ma anche sotto forma dell’Hirsch Hyacinth e di molti altri. È dunque nella forma del protettore, protettore nel mio fantasma, s’intende, poiché bisognerebbe aver raggiunto il limite estremo del razzismo per prendersela con lo Schlemihl, che ero tentato di presentarmi davanti un’assemblea di superdotati, poiché ciascuno sa che non ci sono Schlemihlim nella Scuola. Di sfuggita, vi segnalo che Schlemihlim è il mio modo di mettere Schlemihl al plurale.
Di questa apprensione a presentarmi davanti a gente dotata di ogni sapere, dunque davanti a persone che istituivo come psicanalisti, restano delle tracce. È per questo che entrerò nel vivo del mio proposito con una storia ebraica.
È la storia di un ebreo infartuato vale a dire, per i non – medici, che era stato vittima di un infarto del miocardio, infartuato dunque ma lubrico a cui il suo medico aveva consigliato moderazione nei rapporti sessuali. Quando il nostro uomo ha chiesto qualche precisazione, il medico gli ha detto: diciamo una volta a settimana. Dopo una quindicina di giorni trova questo regime un po’ troppo severo e viene a chiedere una modificazione e mercanteggia fin quando – la storia va raccontata in tedesco – il medico finisce col concedergli: “E sia, vi accordo di avere relazioni nei giorni che hanno nel nome una N”. Il che non era male, poiché in tedesco c’è Montag, Dienstag, Donnerstag e Sonntag. Ma bisogna credere che questo non bastasse ancora al nostro Schlemihl che, un sabato mattina, di ritorno dalle funzioni religiose augura a sua moglie il tradizionale Gut Schabes,Buono Shabbat, ma commette un lapsus e saluta sua moglie augurandole Gut Schnabes[cioè vi ha aggiunto una n N.d.T.].
Raccontavo questa storia a uno dei miei analisti. Ma, poiché dubitavo che la sua cultura andasse sino all’yddish, l’ho tradotta in francese cercando una lettera che rimpiazzasse l’originaria N, e ho scelto la R che era già apparsa prima nel mio lapsus sulla terrorie. Ho scelto la R facendo augurare al mio personaggio che esce dalla messa e rientra in casa una “gioiosa drimanche” [dimanche: domenica, con l’innesto della R. È udibile anche l’inglesedream: sogno N.d.T.]. Lo psicanalista mormora qualcosa come: è la R che permette la trasgressione. Forse, oggi, non direi esattamente la stessa frase, ma l’appunto non fu senza effetti. Vi ritorneremo presto.
È a Deauville che mi è venuta l’idea di dare questo tono alla mia relazione. Forse ero mosso da un “perché non io”. Probabilmente, una volta di più, provavo un sentimento di esclusione, di frustrazione per non appartenere, o non appartenere più, ad una generazione che poteva beneficiare di questo esame di passaggio, e non di pesatura, denominato passe.
Avevo fatto parte di quel lotto chiamato “prima della lettera” e che si è potuto designare come i “commilitoni del generale”. Mi sono comunque un po’ interrogato su questa denominazione per scoprire che essa non era senza rapporto con la trasmissione dell’analisi.
Si poteva credere che questa designazione costituisse una sorta di premio alla fedeltà, come una medaglia alla Memoria Francese. Sarebbe dimenticare che all’inizio c’era un impegno. Non direi una scommessa: in una scommessa non si rischia che la propria posta. In un impegno è in gioco tutt’altra cosa, sia essa cosciente o inconscia, presente o avvenire. Inoltre non vi si espone solo se stessi, ma probabilmente qualcun altro.
Le circostanze, il caso dovrei dire, avevano voluto che io avessi scelto di lavorare in un luogo privilegiato. Esisteva a Strasburgo, mi scuso di questo richiamo storico, esisteva a Strasburgo dal 1874 un insegnamento di psichiatria distinto dall’insegnamento della neurologia. Non vi era che Parigi, all’epoca, a beneficiare di un simile statuto. Ora mi ero impegnato negli studi di medicina, dopo aver rinunciato a quelli di matematica, probabilmente in mancanza di persone che all’epoca mi orientassero altrimenti, mi ero impegnato in studi di medicina per accedere a quelli di psichiatria o più esattamente allo studio della follia. Non sapevo ancora quale fosse il legame che mi attirava verso questo oggetto di studio, ma era abbastanza potente da farmi superare tutte le tappe del cursus ospedaliero e universitario – il che non faceva affatto parte delle mie intenzioni iniziali. Il che mi permette di non essere troppo commosso quando mi si rimprovera di essere un professore. Sapiente come sono diventato, so quel che ne è di un eventuale investimento. Il che non significa che l’insegnamento non abbia avuto per me, a lungo, una funzione importante. Insegnavo, dunque, ben prima di essere chiamato professore e ancora ben più prima di essere chiamato analista – e, soprattutto, di essermi autorizzato analista.
Che cosa insegnavo? Non ne sapevo francamente nulla. Il che doveva intendersi. Credevo d’insegnare ciò che sapevo. Allora che in realtà non sapevo niente. Cercavo non solo una verità, che all’epoca avrei avuto molta difficoltà a distinguere dal sapere, cercavo una via. E così, a mia insaputa, trasmettevo il gusto, l’interesse per l’esplorazione. Sempre il caso: il capitolo dei Numeri, che d’altra parte in ebraico non si chiama “Numeri” ma “Nel deserto”, dunque il capitolo dei “Numeri”, intitolato in francese “Gli esploratori” (ma che in ebraico è designato dal nome “Invia te stesso”), era stato quello che avevo studiato all’epoca del mio accesso alla mia maturità religiosa. Il caso vuole che da allora siano trascorsi esattamente 40 anni, il tempo di una traversata del deserto, il tempo di un’espiazione. Avrei potuto o dovuto conoscere la sorte riservata agli esploratori quando essi deludono coloro che li hanno incaricati di questa missione. Almeno quando il loro rapporto trasmette che la via è ardua. E il messaggio che essi trasmettono condanna anche tutti coloro ai quali esso era stato trasmesso.
Ma nessuno mi aveva incaricato di una missione, almeno nessuno nella realtà esterna.
Prima avevo l’aria di parlarvi di psichiatria. Infatti, all’epoca la mia incuria era tale che non consideravo nessun altro accesso alla psicanalisi che, come ogni medico o profano, non distinguevo dalla psichiatria. E la mia inesperienza mi aveva fatto a lungo ignorare la stessa esistenza di Società di Psicanalisi o almeno non vedevo maggiori relazioni tra queste società e la psicanalisi che, per esempio, tra un gruppo religioso e l’eventuale esistenza di un Dio. Il che ha fatto sì che la mia prima analisi, ed è qui che ritorno a ciò che evocavo prima con il nome di “analisi personale”, che dunque la mia prima analisi l’ho intrapresa senza domandare il parere e ancor meno l’autorizzazione a nessuno per la buona ragione che ignoravo tutto di una tale procedura. Non mi curavo neppure, e per le stesse ragioni, che questa prima analisi fosse riconosciuta o meno da una qualunque istanza.
I “motivi” della mia analisi, a parte quest’attrattiva inconscia, i motivi razionali non mancavano: disturbi del comportamento, sintomi nevrotici, ricordi di nevrosi infantile ecc. Non mancavano neppure colleghi o maestri a farmi l’onore di considerarmi perverso. Diane Chauvelot ci ricordava che, per i perversi, Freud preconizzava più la Nave dei Pazzi che la psicanalisi. Io, nei miei momenti di lucidità, mi accontentavo di credermi folle.
Tra il periodo della mia prima analisi e l’inizio dei miei studi di medicina, che cominciarono verso la fine della Seconda Guerra mondiale, erano passati degli anni durante i quali avevo completamente dimenticato un primo incontro con Freud. Verso i 19 anni, mi era capitato sotto mano un esemplare dell’“Introduzione alla psicoanalisi” e, all’epoca, avevo redatto un quaderno di note che lo riguardava. Il contenuto e la stessa esistenza di quel quaderno erano stati del tutto dimenticati fino al giorno in cui non l’ho ritrovato, molto tempo dopo, quando ero ormai immerso nell’analisi fino al collo. Non sapevo più niente di ciò che conteneva il quaderno, eccetto un esempio delle prime pagine quello di questo errore tipografico che aveva deformato la parola “Kronprinz” in “Kornprinz”, poi in “Knorrprinz”. Questo gioco di parole, o questo errore tipografico, mi era sempre rimasto impresso. Senza che potessi reperire che erano già le due lettere R e N che, attraverso il loro spostamento, creavano dei Witze. Queste stesse lettere R e N che apparivano nelle due versioni della mia storiella (fr. blague) dell’ebreo lubrico. Qualcosa dell’istanza della lettera nell’inconscio era inscritto, era inscritto in me, ben prima di ogni incontro con Freud. E soprattutto molto tempo prima del mio incontro con Lacan. Giudicate quale può esser stata la mia giubilazione quando ho finito – dopo essermi liberato dall’irritazione in cui mi sprofondava il linguaggio di Lacan, linguaggio da cui mi sentivo rigettato a causa della sua difficoltà – quando dunque ho finito con l’intendere che ciò di cui parlava Lacan era proprio questo.
A quell’epoca non avevo ancora scoperto, non sapevo perché ero innamorato cotto, cosa mi aveva morso. Ma questi effetti di Witz provocati dalle lettere ambulanti mi affascinavano.
La scoperta soggiacente a questi giochi, senza andare troppo lontano, era ampiamente sufficiente per dare al mio “insegnamento”, per ufficiale che fosse, una risonanza abbastanza paradossale da attirare e agganciare qualche uditore, anche se all’epoca ero del tutto incapace di dire in che cosa i miei corsi si distinguessero dagli altri insegnamenti di medicina. Infatti era in questo quadro che mi situavo, tanto ero preso nella mia passione dell’ignoranza da essere completamente sordo a ciò che potevano dirmi colleghi e amici della mia generazione meno ottusi o meno otturati di me.
Avevo desunto solo una cosa che si cristallizzava nelle facezie del tipografo del “Kronprinz”: è che tra la parola e la cosa designata vi era un abisso invalicabile e che bastava un anagramma perché il principe ereditario (“Kronprinz”) divenisse principe del grano (“Kornprinz”) o principe del grugnito (“Knorrprinz”), senza per questo smettere di essere la stessa persona. Solo molto più tardi avrei scoperto il mio posto in questo gioco di parole. L’Edipo mi domandava solo di situarmi nella posizione di principe ereditario, che subisce un ridimensionamento venato d’irrisione ad opera del principe del grano, poiché provenivo da una famiglia di venditori di grano. Ma quale grugno traduceva il “Knorrprinz”? Contro cosa dovevo difendermi se non contro le streghe che mi obnubilavano e che mi avrebbero abbandonato solo alla fine del mio percorso, dopo aver demolito con cura ogni tentazione di credere nel senso.
Fatto sta che questi scivolamenti significanti fecero che molto presto io non attribuissi particolare valore alle diagnosi. Tacciare qualcuno di paranoico, schizofrenico, delirante ecc. non cambiava niente in questo qualcuno, ma come mi aveva indicato la lettura dell’Introduzione, poteva significare qualcosa riguardo chi formulava la diagnosi.
Di spostare così l’interesse rivolto sul malato-oggetto verso lo psichiatra-soggetto era certamente un’esca per coloro che all’epoca ancora non si chiamavano psichiatri in formazione, così evitando loro, ad un tratto, lo stampino dei formatori. Così, forse, anche se non lo sapevano, soprattutto se io non lo sapevo, un certo numero tra loro presero, ben prima di me, ad interrogarsi sul loro posto.
Probabilmente, è stato per questa strada che il mio entusiasmo era comunicativo. Cercavo qualcosa e, anche se la via della ricerca è condannata a non finire mai, cosa che all’epoca ancora non mi avevano insegnato, era una strada che almeno confessava di non avere già trovato risposte, che non vi sono maestri che sanno già tutto e che ciascuno aveva l’opportunità, se non di trovarsi o ritrovarsi, almeno di situarsi. Credo che risalga a quest’epoca l’efficacia del V.R.P. (viaggiatore, rappresentante, piazzista) in psicanalisi e, dal momento che le mie prime decifrazioni di Lacan erano state una folgorazione, mi consideravo un rappresentante della teoria lacaniana. Non la diffondevo, e a ragione, ma mi comportavo come quei sionisti che spediscono gli altri in Israele, mentre loro se ne restano in paesi più confortevoli e meno pericolosi.
Non volevo andare a vedere me stesso più da vicino. E mi confortavo in questo rifiuto con la convinzione che ero un cattivo allievo, lo ero e lo ero sempre stato nei riguardi di chiunque si erigesse a maestro. Il più delle volte avevo solo uno scopo: demolire ai miei occhi, e se possibile agli occhi degli altri, tutti coloro che si accaparravano quel posto. Per, in un primo momento, accaparrarmelo io. La lista delle mie bestie nere era lunga. Tanto più lunga nella misura in cui procedeva con una immaginazione per me capitale: Don Chisciotte edipico, accanito ad incarnare il fallo per sua madre.
Contemplando oggi, retrospettivamente, nachträglich, i capovolgimenti di queste combinazioni immaginarie, non posso che essere estasiato dal genio dell’inconscio.
Ad ogni nuova tappa, mi rompevo il muso. Ma mi riprendevo medicando le mie ferite, immaginandomi che la nuova soglia superata avrebbe alimentato nuove riflessioni, nuove esperienze, un nuovo insegnamento che, compensando le mie perdite egoiche, mi avrebbe apportato un ritorno di stima persino di affetto.
La Nachträglichkeit mi spinge a raccontarvi tutto questo, in flash-back, per tentare di restituire una certa cronologia. D’altronde, un po’ al lato del soggetto. Cerco di mostrare in quali condizioni si è svegliato in me l’interesse per la psicanalisi e ciò che succedeva mentre trasmettevo questo interesse. È chiaro, presumo, che sarei stato incapace di trasmettere altro, ancor meno capace d’insegnare quel che sia. È in questo che insegnamento e trasmissione si distinguerebbero radicalmente. Vale a dire che una crassa ignoranza sarebbe esigibile per trasmettere qualcosa? Certo che no. Ma che l’insaputo del sapere non si sostiene su lezioni che, per appassionanti che siano, lasciano al riparo il soggetto e il suo desiderio. Quanto al ruolo del ripetitore, del pappagallo che è intriso di ciò che è scritto nei libri, ne ero protetto grazie alla mia qualità, già accennata, di cattivo allievo che non considerava la lettura la sua distrazione favorita.
Non impietositevi troppo per coloro che, all’epoca, furono le mie vittime, cioè i miei auditori. In genere, si sbarazzavano di me dopo un po’ di tempo e proseguivano il loro percorso, mi salutavano e se ne andavano, più spesso mi superavano, il che mi autorizzava e ancora mi autorizza a credere che io lo permettevo loro.
Se lo volete, torniamo ora al nostro ebreo lubrico che, con il motto di spirito, faceva a sua moglie delle proposte in fin dei conti molto oneste. In un primo momento, si potrebbe credere che era sua moglie che era necessario convincere ad accettare le sue manifestazioni di tenerezza. Mentre, in realtà, era alla legge medica che si trattava di contravvenire. Prendere il medico nella sua stessa trappola tramite una produzione dell’inconscio.
Il Buono Shabbat non è l’apriti Sesamo, ma un atto di obbedienza. Non è la sposa che obbedisce, che si sottomette a suo marito. Probabilmente, non c’è alcuna ragione perché lei debba rifiutare di condividere un piacere. È a suo marito che il piacere è interdetto da qualcuno che si è fatto garante della sua stessa vita. “Obbedisci al tuo medico così vivrai più a lungo”. Il che richiama il quinto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre” affinché i tuoi giorni sulla terra si prolunghino.
C’è lì un contenuto che si può trarre dal Witz, ma senza rapporto con la N e la R che gli avevo affibbiato. Il che non vuol dire che queste lettere non funzionassero nel mio inconscio, questo inconscio che un giorno aveva rifilato (fr. fourgué) ad un analizzante un anagramma completamente irriconoscibile del mio nome e che, in seguito, ha fatto dire a questo analizzante: “Non mi sapevo così intelligente”. E tuttavia lo era. Forse, è in momenti come questi che l’analista trasmette qualcosa della psicanalisi: donando all’analizzante la propria ricchezza.
Qui si aprirebbe un’altra questione, di formato. “A chi” si trasmette la psicanalisi? Sono in grado di dire “tramite chi”. Ma “a chi”, a questo ho solo fatto allusione.
Per aver visto, soprattutto all’estero, l’uso che può farsi dell’opera di Lacan, uso intelligente, ma più ermeneutico che analitico, ho qualche reticenza a riconoscere questa trasmissione [come destinata] ad altri che a psicanalisti. Eppure non è quel che tanto spesso facciamo? O almeno che tentiamo di fare?
È qui che il seguito della mia esposizione restituirà, forse, il suo posto al particolare imprevedibile che nessuna teoria psicanalitica potrà mai rimpiazzare: anche senachträglich, questo particolare troverà il suo posto nella teoria.
L’esitazione che vorrei rendere percepibile nel mio avanzamento – così restio a raggiungere il nodo, il nucleo patogeno che si tradiva nel Witz iniziale – vorrebbe tradurre la lenta spoliazione (più che la lenta sfogliatura) di un fantasma, di cui ciascun strato si accompagnava alla perdita di nuove illusioni. E se si sapesse in anticipo quanto costa pelare così il fantasma, è probabile che molti tra noi farebbero come la maggior parte della gente che scappa avanti, passa all’atto, s’immerge nella produzione anziché spingersi inesorabilmente verso quei tempi in cui si sono annodati in impiombature le estremità della cordicella, della treccia del nostro destino. Il cammino non è progressivo, lineare. Procede per spaccature, rotture improvvise, imprevedibili che sfuggono a tutte le astuzie dei meccanismi di difesa.
Così i miei giochi con le lettere R e N.
Nella notte che ha seguito la seduta in cui avevo raccontato la mia storiella ebraica, si produsse ciò che posso designare solo come una rivelazione sconvolgente, folgorante.
Apparve un personaggio della mia infanzia, personaggio per niente dimenticato, ma la cui funzione percepita e registrata, era sempre stata perfettamente misconosciuta.
Rassicuratevi: non spingerò l’indecenza al punto da fare una confessione pubblica del racconto di questa emergenza, la quale non avrebbe nulla da invidiare ai film del terrore che, a loro volta, non sono che pallidi riflessi di ciò che pudicamente si chiamano teorie sessuali infantili.
Apparve un personaggio, uno Schlemihl radicale, con tutti i sensi che comporta la parola in yddish, specie quello d’infermo, handicappato. Il mio Schlemihl, oltre ad un’aplasia dell’orecchio, aveva una malformazione palatina che gli impediva di pronunciare le R. Aggiungiamo a questo che si chiamava René, ma per coloro che lo conoscevano, esisteva sotto il nome di Ené. Una R in meno.
Ené era, per i bambini che all’epoca eravamo, un compagno di giochi, servizievole e docile, e forse un po’ vittima. Interpretava forse i ruoli meno scelti e, ancora, non ne sono certo. Ma giocava con noi.
Tutto cambiava al contrario quando gli adulti, e coloro che mi erano più vicini, entravano in scena. Per i suoi genitori, i suoi collaterali, Ené era l’oggetto. Innanzitutto oggetto di vergogna, perché manifestava la maledizione. Incarnava la sanzione di tutti i peccati e, soprattutto, lo scacco. Questo adulto, accettato senza difficoltà dai bambini, era rigettato, disprezzato, verpönt dagli adulti che, pur non maltrattandolo, ne facevano il tema di conversazioni segrete in cui riversavano il flusso dei loro fantasmi. Oltre queste malformazioni benigne che tutti potevano percepire, aveva una salute cagionevole. Come prendersene cura, proteggerlo? Quale sarebbe stata la sua fine? Si descriveva, con abbondanza di dettagli ripugnanti ed affascinanti, gli asili nei quali lo si piazzava per non avere più sotto gli occhi questo segno permanente dell’obbrobrio divino. Lo si nascondeva.
Tutto quel che dicevano gli adulti era segreto, ma le conversazioni più segrete, proprio quelle che m’ingegnavo a scoprire, trattavano della sua sessualità. Non dovevo avere più di sei anni alla morte di René. Il che ha fatto che, durante tutta la mia infanzia, gli adulti e specialmente i miei genitori, mantenessero su René, e a loro insaputa, un’atmosfera di minaccioso mistero in cui proiettavano allegramente i loro fantasmi, e nutrivano in abbondanza i miei.
Qui, almeno per il mio attuale discorso, i dettagli non hanno alcuna importanza. Ma ciò che è sicuro è che in coloro che mi erano più cari, e in me stesso, ho scoperto ciò che tradizionalmente si può designare tramite le pulsioni parziali, più qualche altra. Grazie a questo oggetto di pietà, le persone non sapevano che parlando di lui erano di loro stesse che parlavano. E, come si dice, ça y allait. Così, se non prematuramente, almeno in un modo eccezionalmente esplicito, ho imparato ciò che ne era dell’oralità, dell’analità, ma anche dello sguardo vergognoso e della voce soffocata, come anche di numerose deviazioni e perversioni. Scoprivo allo stesso tempo che Ené che, come ho già detto, era per i bambini un compagno di gioco, occupava per gli adulti la stessa funzione, benché più nascosta, inconfessabile, questa stessa funzione che riempiamo noi stessi, noi bambini. Avevo imparato che l’oggetto del discorso degli adulti era, allo stesso tempo, il loro oggetto di godimento. Questa scoperta fu per me un po’ prematura. Ho saputo il destino fantasmatico riservato agli oggetti di godimento e, allo stesso tempo, ho imparato insieme a far sembiante di prestarmi a questo gioco, ad entrare nel gioco [fr. combine], a farlo proseguire e, allo stesso tempo, a diffidare di loro.
Questo fu forse il lutto più orribile, il taglio più irreparabile che più nulla avrebbe potuto colmare. Nulla di stupefacente nel fatto che la dimensione pulsionale di questo episodio fosse dimenticata, rimossa. Ne emergerà che a questa R in meno – per simbolizzare loSchlemihl al quale, tanto per espiazione delle mie e delle altrui colpe, che per mio godimento personale – io ero costretto ad identificarmi. Ecco perché uno dei personaggi dietro cui mi nascondevo più spesso non poteva essere che quello dello Schlemihl.
Dopo aver raccontato la storia dell’infarci tutto questo groviglio di pulsioni, mostruose e nascoste come tutte le pulsioni, mi si è svelato. Dubito che questa esperienza, anch’essa notturna, abbia avuto qualcosa da invidiare in intensità alla fede di Pascal o al demone di Lutero. Essa non poteva che restituire il capovolgimento di questo primo taglio, specie con i miei genitori, in cui, a prima vista, era in gioco la morte del padre e il possesso della madre.
Mi ci volle del tempo per rimettere ordine in ciò che mi sommerse di questa vicenda infantile. Inutile precisarvi che fui colto da graforrea, logorrea che dovette sembrare più delirante che maniaca che non esaurì affatto questa insospettata rivelazione, ma che mi ha legato definitivamente a Freud, che aveva scoperto questo inconscio, e a Lacan che, che permettendomi di decifrare questa inclusione, mi ha evitato di farne una forclusione.
Ecco dunque il segreto su cui si àncora la trasmissione di ciò che mi è giunto della psicanalisi. Poiché aldilà del Simbolico del nome, dell’Immaginario dei fantasmi che li circondano, si situa il Reale, almeno dell’orecchio e della fessura palatina. D’accordo, forse il Reale non è questo. Andrebbe piuttosto ricercato in ciò che gli altri, i grandi per il bambino che io ero – rassicuratevi: non sto confondendolo con il grande Altro – il Reale sarebbe piuttosto ciò che questi altri esigevano da Ené e che a lui mancava ostinatamente. Il che non impedisce che questo aveva l’aria di eccitarli follemente.
Nelle parole e nelle grida, i mormorii e i sottintesi che mi ritornano di questo periodo, ho ricostruito un testo in cui si componeva un desiderio, mettiamo quello di mia madre. Dal momento che il supporto di questo desiderio era assolutamente insoddisfacente, si offriva un posto a quel bambino che ero. Posto di godimento dal quale ci si può chiedere grazie a quale miracolo ne sono uscito. Non era per niente un miracolo, dal momento che il mio padre reale ha giocato un ruolo in questa tragi-commedia. Ma le vie d’accesso carpite a questo luogo privilegiato mi erano divenute abbastanza familiari perché io possa conoscere un po’ delle conseguenze e dei benefici della nevrosi.
Alle volte, anche da parte di alcuni psicanalisti, si sente porre la questione: “come ha fatto o come farà per uscirne?”
Dove questo “si” (fr. on) designa il luogo in cui senza dubbio la nevrosi gode, ma è raramente quel che si crede di esprimere. Si pensa, piuttosto, alle difficoltà del nevrotico quali se le rappresenta lui stesso, attraverso la sua particolare esperienza nevrotica. Ora non c’è alcun mezzo per rappresentarsi l’intensità dei benefici o delle sofferenze in gioco. È per questo che il ruolo terapeutico della psicanalisi è tra i più limitati. Non dirò certo che sia un ruolo nullo, o di sola suggestione, lungi da me. Risiede piuttosto nelle funzioni prestate in alcuni momenti dall’analizzante all’analista, funzioni con cui quest’ultimo non deve confondersi. Forse, si potrebbe stabilire una teoria degli effetti terapeutici della psicanalisi, ma non è di questo che trattiamo oggi. Il transfert non è probabilmente il solo, né il mezzo essenziale della trasmissione psicanalitica. Infatti, ciò che si analizza, ciò che appare come produzione dell’inconscio non è tanto del divenire quanto del già compiuto, al quale, per molte ragioni, non si vuol rinunciare, che si vuol continuare a far vivere, mentre quel che continua a vivere è piuttosto il fantasma.
In altre parole: non è grazie all’analisi che sono uscito dalla costellazione immaginaria in cui ero imprigionato. Quando ho intrapreso il mio percorso psicanalitico, ne ero già largamente fuori. Ma è stata la psicanalisi che mi ha permesso di ricostruirlo e di poter, più o meno parzialmente, ritrovarne i nodi e le parole.
Se volete, l’effetto dell’analisi non è tanto stato un Daran hatte ich nie gedacht, non l’avrei mai pensato, ma uno sviluppo dei questa frase. Infatti, la sorpresa che connota è più sorpresa del riconoscimento che della scoperta. Qualcosa era là, che forse si sapeva, ma senza poterlo dire.
Interroghiamoci un po’ su questo qualcosa che era là. Si tratta di circostanze eccezionali che farebbero degli psicanalisti delle persone segnate in anticipo dalla grazia? Non lo credo proprio. Gli avvenimenti che ho in qualche modo drammatizzato per renderli presentabili sono fatti che ciascuno di noi ha incontrato, in una forma o in un’altra. La vera questione è quella dell’accesso a questi avvenimenti, che ho presentato come traumatici, ma che devono la loro intensità al fantasma. Ricostruirli si fa grazie all’isterizzazione permessa, favorita dall’analisi, e certamente dall’analista.
È dunque grazie a lui, lo psicanalista analizzante, non nella forma gerundivo che utilizzano gli psicanalisti tedeschi per designare i loro clienti, ma al participio presente, che la trasmissione è possibile.
Perché trasmettere la psicanalisi? Questa questione non è risolta perché si è stabilito che in effetti c’è qualcosa da trasmettere. Anche se riconosciamo il venir meno di un misconoscimento, la via non è un percorso agevole e non conduce ad alcun paradiso. E occorrerebbe un coraggio eccezionale, occorrerebbe essere un “santo” come diceva Lacan per credere ad una funzione salvatrice o redentrice della psicanalisi.
Credere che si difenda la causa della psicanalisi non è per forza un errore, ma è importante prima di tutto distinguere la causa dell’analisi dalla causa dell’analista, causa avvitata al moi che forse è solo l’ultimo abito smesso del fantasma. D’altra parte, è l’ultimo?
Forse noi tutti apprendiamo gli errori e gli orrori in cui ci trascina il misconoscimento. Ma sappiamo ancora meglio che non si può imporre a nessuno di seguire la nostra strada.
Per diffondere la psicanalisi bisogna darsi al proselitismo? Di certo è quel che facevo quando ero ciò che ho chiamato VRP in psicanalisi. È a partire da lì che ho imparato che si trattava soprattutto della mia causa, la causa del mio moi che difendevo.
Non si può negare l’interesse appassionato che può esservi nello studio della psicanalisi, interesse appassionato che si ritrova in ogni studio che può credere che il proprio oggetto sia il grande Altro.
Il fervore che nasce da questo tipo di studi è comunicativo, ma si scopre facilmente la comunicazione possibile grazie alla fede – e gli esempi non mancherebbero, non mi mancherebbero per questa tentazione a cui è facile soccombere.
La difficile topologia in cui ci trascina Lacan non si sostiene solo dell’attrattiva della matematica e gli effetti del suo discorso utilizzano tutta la potenza di un discorso poetico. Il suo verbo mallarmeiano a lungo ha allontanato o irritato le persone – tra cui vi ero anch’io – le ha allontanate dal suo insegnamento. Ma allo stesso tempo questa via poetica ne costituisce una delle attrattive. Non è interdetto rendere attraente l’accesso al matema o, almeno, alla sua ricerca.
Io sono riconoscente a Lacan per una confessione che figura nel Seminario XI sui Quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, confessione del suo piacere per la poesia. Dopo aver citato Controcanto di Aragon, che tornerà ben due volte nel corso del Seminario, dice: «in quest’opera mirabile in cui sono fiero di trovare l’eco dei gusti della nostra generazione, quella che fa sì che io sia obbligato a riferirmi ai miei coetanei per potermi ancora intendere su questo poema[1]».
Dice anche, nella prefazione all’edizione inglese di questo stesso Seminario XI: “Non sono un poeta, ma un poema. E che si scrive, malgrado abbia l’aria di essere soggetto”.
Lacan, non un poeta? Non dubito che un giorno si consacreranno delle tesi al linguaggio poetico in Lacan. Comparirà nelle antologie. Non lo si trova già nei manuali di filosofia della ultime classi dell’insegnamento secondario? Certo, non si tratta di ridurre Lacan alla poesia. Bisognerebbe qui fare il commento di tutta questa prefazione datata 17 maggio 1976. Ma là, una volta di più, io mi confermo cattivo allievo: non farei commenti di un testo, neppure fosse un testo sacro. Tuttavia un testo sacro è sempre poetico, per la creazione che genera, anche se questa creazione è quella di una verità mentitrice. D’altra parte, in questo testo s’iscrive la fedeltà a Freud che aveva riconosciuto ai poeti di aver scoperto, ben prima degli psicanalisti e con più eleganza, un briciolo di questa verità.
Sempre in questo testo, Lacan parla di “hystoire” e d’“hystorisation” [attraverso questa neoformazione, Lacan fa giocare l’equivoco tra storia “histoire” e isteria “hystérie”N.d.T.], scrivendolo con una “y”. Chi tra noi non ha ma commesso un lapsus che sottolineasse questo incontro tra storia e isteria?
L’isterizzazione è una strada, forse la sola, forse non inevitabile, per accedere ai matemi e agli anelli di cordicella, ai grafi e all’uso psicanalitico della topologia. Una via poetica, per evitar di fare di questi oggetti un oggetto di fede o di culto.
Lacan non esita, nella Cosa freudiana, a produrre una quartina degna di un’antologia classica, quartina abbastanza prossima all’inconscio perché io sia sempre incapace di ricordarla.
E Freud non esita a ricorrere al patetico per parlare, nel settimo capitolo dell’Interpretazione dei sogni, dell’amore di un padre per suo figlio, benché egli abbia fondato la struttura sulla morte del padre.
Ipotizzo qui che l’insegnamento dell’isteria segua una via poetica. E che isterici forse lo siamo tutti durante la nostra analisi. Il che fa che poi, in parte, lo restiamo all’inizio della nostra pratica. Noi saremmo allora nella posizione di $ che non ha perso la speranza d’incontrare il proprio oggetto. E l’angoscia degli analisti, giovani e meno giovani, è forse il timore che sul divano possa manifestarsi l’oggetto a.
Vale a dire che, in tal caso, l’analista non sarebbe libero dal proprio fantasma.
Ma una supposizione: che quest’oggetto, egli lo incontra. O meglio, che questo fantasma lo analizza.
A partire da qui, l’oggetto della sua ricerca perderà il suo fascino. Ed è allora che si porrà, per l’analista disilluso e condotto infine nella posizione di oggetto a, la questione di ciò che fa.
La disillusione analizza infine, devo dire il godimento? La convinzione di un essere-analista. Forse, in questo essere-analista, non c’è essere.
Da questo punto, da questa posizione dovrebbe potersi sostenere il discorso dell’analisi. Ancora bisogna sfuggire ad un ultimo sussulto del fantasma, ma è forse l’ultimo, mettiamo uno degli ultimi sussulti del fantasma che appare nella forma del “a che serve?”.
Sempre nella prefazione citata, Lacan pone la questione del perché continuare. “Vi sono casi in cui, ad essere analisti, ci spinga un’altra ragione da quella d’istallarsi, vale a dire di ricevere ciò che correntemente si chiama la grana, per venire incontro ai bisogni a nostro carico, primo tra cui trovate voi stessi, secondo la morale ebraica (quella in cui Freud restava per questa questione)”.
E Lacan continua sottolineando che la questione è esigibile per sostenere lo statuto di una professione “nuova venuta” nella storia.
Dice: “Le questione è esigibile”. Non dice la risposta, quella risposta che attende daipassanti [riferimento a coloro che s’istallano nella posizione di psicanalisti attraverso il dispositivo della passe N.d.T.]. Passanti la cui denominazione pone una questione, o piuttosto oppone una questione all’eterna storia.
Qui potremmo essere tentati dall’etica e citare quel moralista ebraico, che non ha nullo di uno psicanalista, Lévinas, ma riferendosi al quale gli psicanalisti non perderebbero forse nulla. Infatti Lévinas afferma che i commenti attingono dalla legge “il senso etico come ultima intelligibilità dell’umano” (Du Sacré au Saint, p. 10).
Ma è per caso che, in questo testo, Lacan insiste, ritorna sulla morale ebraica e sulla legge giudaica?
Se non avessi riletto questo testo, sarei stato tentato di confessare la mia incapacità di dire perché io desiderassi continuare a trasmettere la psicanalisi, dopo aver mostrato, o cercato di mostrare, come vi ero stato attaccato.
Come sempre, la lettura di Lacan mi ha forzato, se non ad una risposta, ad un’altra questione che è, almeno per me, un rilancio.
Il “perché continuare l’analisi” mi rinvia ad un altro perché.
Questo altro perché eccolo: un caso, in cui mi ritrovo non per niente, mi ha fatto nascere ebreo. Popolo eletto, forse, ma elezione che si paga cara e che, apparentemente, non porta indietro nulla. Allora perché continuare ad esporsi alle persecuzioni, perché restare in questo rigetto, in questo scarto? Esistono molte possibilità per sparire come ebreo e continuare a vivere “come tutti”. Sarebbe stato facile cambiare nome. Dopo la guerra, tutti lo consigliavano, gli Stati favorivano questa possibilità. E, tuttavia, pur senza motivo nazionalista o religioso, io non l’ho mai fatto.
Perché? Non lo so. Probabilmente era una buona preparazione al fatto di non sapere perché continuare la psicanalisi.
Una notte, a Bné-Beraq – e coloro che hanno letto il racconto dell’uscita dall’Egitto, l’Haggadah della Pasqua ebraica, sanno cosa rappresenta questo luogo – una notte a Bné-Beraq io fui colto dal fervore dell’Hassidim che legge Geremia, una notte in cui piangevano, loro, non io, una notte in cui piangevano la distruzione del Secondo Tempio.
Loro, non io? Ancora reminiscenza. Poiché erano tra coloro che avevano scelto di essereSchlemihlim, come me.
Questi Schlemihlim, questi anti-eroi, loro non dubitavano dell’importanza che ha il trasmettere un testo, fosse anche il testo di un sogno.
Un’ultima parola: il testo di un sogno è una creazione, una profezia. Il profeta non trasmette. Lancia, lontano davanti a lui, e il più delle volte controvoglia, ho detto, una parola, un testo che sa che intenderanno in pochi, che i più deformeranno, recupereranno come si dice.
Sono ormai trascorsi molti anni da quando Lacan, al quale avevo detto la mia ammirazione, mi ha domandato se lo avessi preso per un profeta in Israele. Lo credevo, e lo credo sempre, come lo credo di Freud.
Vi ringrazio per la vostra attenzione.

Traduzione di Cristiana Fanelli