09 Mar La legge 180 in Italia: Bilancio di un’esperienza
“La legge 180 in Italia : Bilancio di un’esperienza”
In Italia, fino al 13 maggio 1978 l’assistenza psichiatrica è stata regolata da un complesso di leggi che si definivano come :” Disposizioni e regolamento sui manicomi e sugli alienati” e che contenevano ben cinque disposizioni legislative articolate nel corso di diversi anni, a partire dal 14 febbraio 1904 per finire con il 18 marzo 1968.
E’ interessante notare che nell’insieme di tali leggi ci si riferisce alla malattia mentale in termini di “alienazione” e che le norme ivi contenute sembravano rispondere prioritariamente ad esigenze di “protezione, custodia e sorveglianza “ dei cosiddetti “alienati”, ossia di coloro che presentavano un disturbo psichico. Nel 1968 viene quindi introdotto, per la prima volta, il concetto di “ricovero volontario” a scopo di accertamento e cura, attribuendo così alla malattia mentale una qualche connotazione sanitaria e giuridica. Sarà poi il 13 maggio 1978 che prenderà il via una legge (n° 180) in cui saranno contenute le nuove norme per gli accertamenti e i trattamenti sanitari, volontari e obbligatori, quasi in contemporanea con la legge sulla Istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (più nota come legge di Riforma Sanitaria)(1).
La principale innovazione consisterà nello stabilire che di norma tutti “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”, anche se “possono essere disposti dall’Autorità Sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori” tramite un “provvedimento del Sindaco, nella sua qualità di Autorità Sanitaria locale, su proposta motivata di un medico”. Tutto questo dovrà avvenire “nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti dalla Costituzione”. Nell’articolo 2 della legge, in particolare, si dispone che “le cure vengano prestate in condizioni di degenza ospedaliera solo se esistono alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici, se gli stessi non vengano accettati dall’infermo, e se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra-ospedaliere”. Nell’articolo 3 viene invece sancita la competenza del Giudice Tutelare per quel che riguarda la ratifica delle disposizioni di trattamento obbligatorio emesse dal Sindaco. La funzione specifica del Giudice Tutelare è quindi, in questi casi, di tutela del malato e di controllo della legittimità dell’operato del Sindaco. E’ significativo qui lo spazio riconosciuto a questa figura giuridica piuttosto che a quella del Pretore o dell’autorità di pubblica sicurezza, in altre parole si sottolinea la tutela dei diritti del cittadino invece che confermare le precedenti disposizioni in termini di pericolosità sociale del malato.
Già in queste poche righe sono contenuti alcuni dei principali punti cardine della riforma che, a partire da quella data, è all’origine di un cambiamento epocale per la psichiatria italiana, una specie di ”rivoluzione giacobina” in campo psichiatrico, in un paese, tra l’altro in cui storicamente si vivevano le grandi turbolenze della vita politica e sociale, fino alle sue forme più estreme rappresentate dal terrorismo.
Certo le idee che ne erano alla base e che l’hanno sostenuta fino alle sue conseguenze più recenti, su cui cercherò poi di soffermarmi, non erano solo italiane. Sia nei paesi anglosassoni sia in Francia, (cui lo stesso Basaglia, principale artefice della riforma, rivolgeva in particolare la sua attenzione) si stavano inaugurando nuove sperimentazioni cliniche che tendevano a ridimensionare la portata delle grandi istituzioni manicomiali, senza però mai ipotizzare la loro definitiva sparizione. Nell’articolo 7 della legge 180, invece, si sancisce chiaramente che “è in ogni caso vietato costruire nuovi Ospedali Psichiatrici” mentre per i casi che comportino la necessità di una degenza ospedaliera le Regioni sono tenute ad individuare “gli ospedali generali nei quali devono essere istituiti specifici servizi psichiatrici di diagnosi e cura”, servizi che “non devono essere dotati di un numero di posti letto superiore a 15”.
La legge 180 quindi si delinea principalmente come sparizione dei tradizionali luoghi di cura che vengono in parte imputati di compromettere se non determinare il decorso stesso della psicopatologia, nonché la prognosi della malattia, perché di questo ancora si tratta, nonostante l’accento posto alle cause sociali delle sue manifestazioni. Al loro posto cominciano a prendere forma i cosiddetti “Servizi territoriali”, in parte
affini alle realtà comprese nella “psichiatria di settore” propria della Francia o a quella che nei Paesi anglo sassoni si definisce “psichiatria di comunità”. Sarà questo il principale campo di intervento della psichiatria che dovrà mantenere uno stretto collegamento con i luoghi di vita del paziente anche attraverso una cosiddetta “integrazione” con gli altri servizi “socio-sanitari”.
Già a quattro anni di distanza dalla promulgazione della legge si potevano reperire ( in un libro di testo utilizzato come manuale di studio in psichiatria) le principali critiche agli assunti fondanti della stessa e soprattutto alla sua mancata applicazione. A tutt’oggi si possono condividere le medesime osservazioni a questioni mai risolte e solo mascherate o sepolte prima dall’ideologia e poi dalle regole del mercato.
Perché allora l’interesse della psicanalisi riguardo un fenomeno che, almeno nei suoi presupposti originari, sembra non tenerne conto (come, del resto, anche di tutti i suoi antecedenti storici )?
A questo punto vorrei soffermarmi su alcuni aspetti che mi sembrano caratterizzare dei tratti fondanti della riforma e del suo intreccio con altre questioni che ritornano in vario modo nel discorso psicanalitico nel suo rapporto con la psichiatria, così come ci è stato riproposto da Lacan.
Così già in prima istanza la legge 180 ha rimesso in discussione la questione dei luoghi, nei suoi aspetti più consolidati dal tempo in campo psichiatrico, più specificamente rappresentati dalle istituzioni manicomiali. Qui cominciano ad entrare in gioco molti grandi temi sociali che riguardano principalmente il rapporto della psichiatria con il potere politico di ciascun paese e che in Italia, in particolare, è stato rappresentato da un passato totalitario ancora non molto lontano. Ma senza voler entrare in merito a quest’ultimo, ( che sicuramente è comunque implicato nell’accanimento anti istituzionale della riforma), si può già partire da alcune delle sue principali conseguenze, ossia la trasformazione dei luoghi di cura, fino alle sue conseguenze più estreme, cioè la loro totale sparizione. Ma è avvenuto proprio questo ?
1) La cura dietro il paravento : si potrebbe intitolare così l’avvio della riforma, almeno per quanto è accaduto in alcune realtà, come quella romana, che si è trovata ad accogliere malati e operatori nel loro esodo dagli ospedali psichiatrici. Ciascun Servizio Territoriale, così come chiamato in causa dalla nuova legge, è nato nel nulla di situazioni che non solo non avevano luoghi fisici già designati a tal fine ma nemmeno persone preparate ad occuparli, ad eccezione di alcuni pionieri del nuovo corso che avevano già vissuto l’esperienza istituzionale precedente ed avevano collaborato alla sua successiva evoluzione, nei modi più disparati. E’ stato proprio in virtù del loro entusiasmo iniziale e di quanto riuscivano a trasmettere ai primi appassionati seguaci che si è potuta avviare un’esperienza che è rimasta unica nella storia della psichiatria, (almeno in Italia) con tutte le sue possibili conseguenze, comprese quelle più catastrofiche per la nostra clinica, di cui possiamo essere ancora testimoni. Perché proprio il paravento ? Forse è stato del tutto casuale ( in quanto si lavorava tutti insieme in una grande sala presa in prestito nell’ambito di un complesso ospedaliero destinato alla cura delle malattie infettive….) ma in quel periodo il paravento era l’unico mezzo messo a disposizione di medici, psicologi, infermieri e malati per tutelare qualcosa che si stava tentando di ricreare dopo il ”terremoto” subito (o condiviso) : uno spazio per la clinica.
Il “paravento” è definito nel dizionario come un “mobile costituito da un certo numero di telai ricoperti di stoffa o di carta, collegati mediante cerniere, in modo da fornire una parete variamente adattabile e orientabile , a seconda delle esigenze” . Il prefisso “para” che lo compone viene descritto con il “significato generico di protezione o di riparo”. Quindi, abbattute le mura, o meglio resi inaccessibili “per legge” i luoghi che circoscrivevano ( con delle modalità che richiamano la “presa della Bastiglia” nelle sue accezioni più simboliche) si ricorre al “paravento” in questi “luoghi di cura” recuperati in qualche modo nel marasma dei nuovi tempi. Ora si tratta di un luogo “mobile” o in via di trasformazione, messo maldestramente al “riparo” da un mezzo anch’esso precario e ripreso dalla pratica medica tradizionale (sono proprio gli stessi “paraventi” che vengono utilizzati negli studi medici per tutelare la riservatezza del malato durante la visita, per es. mentre si sta svestendo). All’interno di questi spazi così circoscritti ( o comunque in situazioni analoghe) si è avviato un processo che è presente tutt’ora, in varia forma, nel modo di praticare la clinica psichiatrica in Italia e che, a mio avviso, ha come epigoni estremi l’attuale predominanza cognitivo- farmacologica nell’impostazione delle cure all’interno degli stessi Servizi Territoriali.
Se quindi, come scrive Melman , sulla scia di Lacan “ il luogo del dire è proprio ciò che costituisce per ognuno di noi la propria casa” e se “quello che possiamo legittimamente chiamare il luogo”, continua l’autore,”è la faglia aperta nel Grande Altro in cui trova riparo la nostra soggettività “ (2)di quali luoghi si può parlare nel caso della legge 180, al di là di ciò che ha animato i suoi pionieri e dell’ambientazione storico-politica dell’epoca ?
Forse si potrebbe utilizzare la definizione di Lacan del seminario sulle psicosi riguardo il meccanismo dell’allucinazione e della forclusione più in generale, cioè come “ quello che è stato forcluso nel simbolico ritorna nel reale”(3) rispetto a quanto è poi accaduto nell’ambito di un fenomeno di misconoscimento collettivo come quello che attribuisce una soggettività assoluta al malato di mente, gli preclude gli abituali luoghi di cura (fin troppo circoscritti e definiti) riconoscendogli il “diritto” alla libertà che una società “malata” e “sorda” rispetto alle sue esigenze gli aveva negato, causandogli invece danni e disturbi dalle inevitabili conseguenze. Nel rianalizzare questo fenomeno si potrebbero anche avvertire degli echi di quanto assistiamo ora più in generale nel nostro vivere contemporaneo, cioè in quello che riconosciamo come “paranoia comune” (es. i fenomeni di rivendicazione collettiva o di attribuzione di un danno subito), così che forse lo potremmo considerare come un crogiuolo di esperienze utili per l’analisi di altri fenomeni sociali che prescindono dall’applicazione di una legge rimasta così specifica per la situazione italiana.
Tornando alla questione dei luoghi, ma non è proprio della psicosi, almeno una delle sue proprietà, la dimensione di uno spazio infinito ? Se invece un luogo è una “porzione di spazio idealmente e materialmente delimitata”(come da definizione di un dizionario della lingua italiana)che tipo di spazio viene proposto (o anche imposto) dal “paravento” della nuova psichiatria ? E’ forse solo l’ultimo baluardo utilizzato pietosamente per velare un dire sempre più esposto al discorso comune e quindi senza più faglie da ritagliare nel grande Altro sociale?
Forse è proprio a partire da qui che questa riforma così controversa e atipica (nel panorama psichiatrico internazionale) ha dovuto fare i conti, in maniera sempre più intensa, con il discorso psicanalitico e con le sue conseguenze, anche più immediate, nonostante la negazione iniziale di qualsiasi approccio alla questione che non passasse per un cambiamento sociale inteso, in questo caso, anche come negazione o meglio preclusione (in quanto divieto di accesso)dei luoghi di cura già esistenti e non più riconosciuti come tali. C’è qualcosa in questa “preclusione” che ne riecheggia un’altra ben nota sul piano clinico, ossia la forclusione del Nome del Padre propria delle psicosi. In questo caso però l’accesso al Simbolico non è messo in discussione, mentre si mette in discussione o, meglio, si ricusa qualcosa che il Simbolico stesso ha prodotto. La modalità con cui questo avviene ha la caratteristica di tutte le rivoluzioni nella fase in cui intendono abbattere le dittature, ossia la demolizione dei palazzi del potere o la loro occupazione. Nel caso della legge 180 il processo di misconoscimento in atto ha imposto i suoi divieti nei luoghi di cura, fino ad arrivare ad impedire, per legge, persino la loro trasformazione.
Ma se questa fase “giacobina” della psichiatria in Italia per certi aspetti non si è ancora conclusa ( a Roma è stato oggetto di recenti diatribe un diverso utilizzo di alcuni ex padiglioni del S. Maria della Pietà) cosa è successo invece dei pazienti che continuavano ad esistere e a manifestare il loro disagio fuori o dentro le mura?
Potremmo tornare allora al paravento dietro il quale gruppi numericamente variabili di cosiddetti “operatori” della psiche, dalle qualifiche più diversificate, hanno avviato un processo che in parte dura ancora oggi. Si è avvertita quindi la necessità, al di là di quel minimo spazio fisico, di avviare un discorso che non fosse solo duale, come per la maggior parte dei casi tendeva ad avvenire, ma implicasse anche l’intervento di un terzo nel reale (l’equipe composita e varia di questi nuovi Servizi). Nel suo proseguimento la riforma ha dovuto necessariamente fare i conti con un ambito sociale che, per quanto orientato anche dalla cultura cattolica, molto più radicata in Italia rispetto ad altri paesi, e da una concezione sulla famiglia più disponibile e contenitiva, non mostra sempre tolleranza e rispetto per la diversità e l’emarginazione. Così i malati di mente, trasformati in oppressi e cooptati nella “rivoluzione” sarebbero poi ripiombati nella loro ordinaria esclusione.
2) Ha allora inizio una fase nuova, forse la più feconda di questa riforma, ossia quello che potremmo chiamare il “trionfo della relazione oggettuale”. Si assiste infatti al fiorire sempre più vivace di iniziative “terapeutiche” (soprattutto incentrate sulla famiglia, sicuramente messa a dura prova dalla necessità di interagire con malati gravi spesso senza possibilità di cure efficaci, anche a lungo termine ), come anche a “ supervisione di gruppo per operatori” , questa volta con il riconoscimento di un “consulente esterno” cui si riconosce autorevolezza e competenza (a differenza di quanto era avvenuto rispetto agli psichiatri del passato, compresa una personalità come quella di Mario Tobino che della psichiatria aveva fatto letteratura). Comincia ad affermarsi, infatti, lo smarrimento e l’angoscia diffusa tra chi ha a che fare con “l’impossibile” della psicosi .
L’eventualità di un ricovero era diventata il principale “smacco” per l’operatore psichiatrico, quasi una colpa da riparare o comunque il segnale di un’incapacità nello stabilire “una buona relazione”, forse sulla scia della “madre sufficientemente buona “ derivata da Winnicott. Da qui l’avvio di “progetti terapeutici” di vario tipo, finalizzati in parte a “rimediare” un errore nella cura o comunque a sostenere pazienti, famiglie e soprattutto operatori in un percorso più che mai accidentato e pieno di incognite, sempre al di fuori dei consueti e forse più rassicuranti saperi della tradizione psichiatrica manicomiale.
Ma che tipo di sapere stava nascendo da questi gruppi eterogenei di persone che si erano trovate unite inizialmente da una logica di contrapposizione al passato, in tutte le sue forme, e poi dalla consapevolezza di aver comunque intrapreso un viaggio nel mondo della psicosi, forse in maniera un pò ingenua ed illusoria, ma spesso con curiosità e passione, da cui era comunque impossibile tornare indietro ?
Forse si potrebbe parlare di un discorso che si stava sviluppando parallelamente al diffondersi delle diverse teorie psicanalitiche anche nel contesto italiano e che tendeva a rimanere inizialmente sganciato da quello universitario (almeno nelle sue forme più tradizionali). Si è trattato di un periodo di vivaci scambi dialettici e di contrapposizione di teorie in cui si tendeva a sperimentare sul campo qualcosa che implicava direttamente la soggettività di ciascun operatore il cui mandato di cura tendeva ad ignorare quando non a contrapporsi a qualsiasi appello alla sicurezza sociale. Ci si è trovati quindi di fronte ad una grande opportunità di mettere in gioco il discorso psicanalitico nei Servizi psichiatrici, ma qualcosa di questo processo si è progressivamente esaurito nel corso degli anni, forse anche in sintonia con l’affermarsi di nuovi discorsi, come quello cognitivo-comportamentale, sempre più inserito anche in ambito universitario.
3) La fase attuale dell’applicazione della legge 180 appare molto composita se non confusa. Si è assistito ormai da alcuni anni al ritiro dal lavoro nei servizi pubblici da parte di molti psicanalisti che hanno rinunciato a teorizzare nuovi metodi di cura con gli psicotici, se non nell’ambito dei loro studi privati, con le limitazioni che questo comporta. Per chi rimane i margini di ricerca e di intervento sono sempre più incerti anche in relazione alle minori risorse economiche disponibili e alle maggiori deleghe riguardo la sicurezza sociale che, paradossalmente, vengono rivolte ai servizi medesimi con rinato vigore . L’istituzionalizzazione, pressoché impossibile fino a qualche anno fa, ora diventa “a termine” o “mirata” secondo “progetti di cura” presso strutture rigorosamente “private e/o convenzionate” (almeno nella maggior parte delle regioni italiane) che presuppongono una forma di “guarigione” o, comunque, di pacificazione temporanea del malato (con scadenze prestabilite, secondo l’ottica che le cure vanno distribuite tra tutti, ma per periodi limitati, indipendentemente da qualsiasi considerazione clinica).
Non si può dire, comunque, che l’esperienza sia conclusa, se non altro per la testimonianza quotidiana di una clinica che per certi aspetti si ripropone quasi identica al passato ( con i suoi fenomeni riconoscibili e le sue manifestazioni irriducibili anche di fronte ai trattamenti più innovativi) e per altri riflette i cambiamenti della contemporaneità cui aderisce come meglio non può fare la psicosi. Così i pazienti (che da “alienati” sono diventati “utenti”) continuano ad afferire secondo le modalità più diversificate ai nuovi luoghi della psichiatria e a farne l’uso che questi consentono.
4) Per quanto riguarda infine la mia personale esperienza trentennale, (dato che la mia attività lavorativa si è inserita fin da subito in quel contesto, proseguendo poi con varie articolazioni) nonostante l’inevitabile e progressiva caduta di una serie di aspettative iniziali, che penso fossero implicite già nella stessa iniziativa basagliana e su cui non vorrei tornare ulteriormente, penso di poter affermare che alcune “invenzioni” terapeutiche o certe “costruzioni” cliniche, su cui sarebbe ancora il caso di indagare soprattutto grazie agli strumenti della psicanalisi, sono state rese possibili proprio in virtù di quella legge.
A questo proposito è necessario comunque partire da una premessa, ossia che la legge 180 ha trovato una varietà di applicazioni, sempre parziali, in relazione alla zona geografica in cui queste si inserivano. Non si è trattato quindi di un’esperienza unitaria, al di là dell’assunzione di base, ossia quella della chiusura delle strutture psichiatriche pubbliche, (mantenendo però la possibilità di attivare o comunque utilizzare strutture private, anche convenzionate). In ogni regione o area territoriale si sono così create iniziative diverse, spesso a carattere sperimentale, originate il più delle volte dalle carenze normative e applicative in cui ci si trovava ad operare.
A questo occorre aggiungere la mancanza di riferimenti formativi che in precedenza erano stati di pressoché esclusiva competenza universitaria. A partire quindi da un iniziale diniego di quel tipo di sapere, sempre sulla scia dell’esperienza basagliana, si è aperto un nuovo spazio di lavoro e ricerca che, se da una parte aveva come principale caratteristica il rifiuto di una generica tradizione passata (identificata per lo più come origine del potere psichiatrico e quindi della segregazione), dall’altra permetteva, in forme spesso misconosciute, l’avvio o la diffusione di diverse pratiche di lavoro, spesso in forma sperimentale. La nuova prassi, che aveva cercato di spazzare via il vecchio sapere, ha avuto però la tendenza a cercare una specie di auto confermazione, a volte con l’obiettivo, non sempre esplicitato, di salvaguardare una forma di conoscenza che rischiava di essere continuamente travolta dagli eventi.
Sulla base di questi presupposti i nuovi “luoghi” in cui mi sono trovata ad operare erano incentrati soprattutto sulle persone che vi afferivano, sia come malati che come operatori. Le strutture erano rappresentate dagli ambulatori e dai domicili o più genericamente dai luoghi di vita dei pazienti. Al di là quindi delle differenze locali, per cui in sintesi si possono trovare regioni dotate di strutture ed altre no, la mia operatività si è necessariamente orientata su esperienze attivate al di fuori degli ambiti ospedalieri.
In quest’ambito, quindi, una difficoltà di non poco conto è derivata dalla babele terminologica che caratterizza i diversi orientamenti formativi di chi pratica questo tipo di clinica, rispetto alla quale le categorie diagnostiche codificate, come quelle del DSM o dell’ICDIX, non risultavano di nessun aiuto, tanto da essere utilizzate solo per gli obblighi derivati dai fini statistici o epidemiologici. Questi ultimi, infatti, a mio parere, hanno cercato progressivamente di costituire di per sé un sapere, quasi per colmare il vuoto creato anche dalla crescente disgregazione dei saperi riconosciuti.
Così, sempre all’interno della mia esperienza nei servizi territoriali, che soprattutto negli ultimi anni hanno rappresentato nel corso del tempo l’ultimo approdo possibile per molti casi gravi di psicosi, ho assistito e partecipato all’avvio di esperienze che, pur lasciando inalterata la difficoltà di approccio diagnostico e tendendo quindi prevalentemente all’utilizzo di grandi categorie, hanno cercato di dare spazio al reale dei pazienti, possibilmente diverso da quello dell’allucinazione o del delirio, per lo meno di quello che li occupava in maniera prevalente se non totalizzante, nonostante la terapia in dotazione. A questo riguardo vorrei aggiungere che in quell’ambito anche lo psicofarmaco ha sempre comunque trovato una sua degna collocazione, al di là della sua più o meno effettiva efficacia.
Superati quindi, come dicevo, i Maestri del passato e i discorsi che li accompagnavano, compresi quelli della psicopatologia tradizionale, che comunque tornava ad essere evocata frequentemente nelle discussioni tra colleghi, si è assistito poi alla progressiva scomparsa anche dei nuovi Maestri, ossia i pionieri della legge, passati spesso a ricoprire altri incarichi istituzionali, nella migliore delle ipotesi per cercare di portare a compimento quegli aspetti di integrazione sociale cui si mirava già in prima istanza.
Il vuoto lasciato, che non è mai stato veramente tale, almeno nell’immaginario di chi è rimasto ad operare in quella realtà particolare, ha così permesso a molti di cimentarsi in varie iniziative, spesso molto originali nella loro attuazione, quando non derivate da esperienze precedenti e trasformate per la specifica situazione di lavoro.
Si cercava di rappresentare dei poli di attrazione per i pazienti e i loro familiari, data anche la generale scarsa consistenza dei luoghi fisici in cui ci si trovava ad operare. Riguardo questo tema si può pensare che le varie teorie sul transfert che alimentano il discorso psicanalitico nei suoi diversi approcci può aver costituito una forte spinta all’avvio di diverse iniziative in questa direzione, favorendo un’interpretazione che potremmo chiamare (come ne ha parlato anche Oldenhove nel corso delle “Giornate di studio sul transfert”- Parigi-2011) di tipo “benevolente”, tendente a misconoscerne, salvo scoprirli subito dopo, gli aspetti persecutori sempre presenti (soprattutto con i pazienti psicotici). Penso così che la generale “inconsistenza” dei luoghi fisici, di cui parlavo possa aver favorito i presupposti di una relazione transferale più adatta a strutture psicotiche di tipo schizofrenico, mentre per i soggetti più paranoici, quand’anche la situazione avrebbe potuto offrire qualche punto di aggancio, spesso l’approccio doveva transitare attraverso percorsi istituzionali più strutturati, soprattutto tramite i rappresentanti della legge, nei suoi vari aspetti, anche i più autoritari . Si tratta anche qui di una tipicità conseguente alla legislazione italiana che, sin dall’origine, oltre alla chiusura dei reparti, come ho già detto all’inizio, ha avuto come principale obiettivo un riconoscimento per il malato di mente di una sua capacità giuridica, quindi delle sue prerogative di soggetto, fatta salva una valutazione di pericolosità sociale ottenibile solo in ambito processuale. Questa situazione, che più recentemente ha trovato un ulteriore avvallo nella legge di chiusura degli OPG, è stata anche alla base di situazioni paradossali, spesso gestite dai magistrati con soluzioni individuali, a volte molto ingegnose, quando non altrettanto tragiche rispetto agli atti compiuti dai pazienti. Tanto per citare solo alcuni esempi, è capitato che un malato (riconosciuto tale) sia stato rinviato al proprio domicilio dopo aver ucciso la madre, dato che ormai l’atto era compiuto e non c’era pericolosità sociale…Penso che in quel caso il paziente fosse ormai rimasto solo, per cui poteva autonomamente (secondo legge) scegliere di curarsi o altro. Non vorrei dilungarmi ancora su questo argomento, (come anche sulla procedura utilizzata per i ricoveri coatti, anch’essa affidata alla varia interpretazione dei soggetti coinvolti) che meriterebbe un approfondimento che penso sia meglio rinviare ad un’altra e più opportuna occasione.
Vorrei invece tornare alle iniziative di cui accennavo sopra e che mi hanno implicata direttamente, come, per es., l’avvio di un gruppo di “lettura e scrittura” organizzato all’interno del mio Servizio e riservato a pazienti psicotici, di cui alcuni anche molto gravi.
Si tratta di un’esperienza cui sono approdata anche sulla scia di una situazione simile conosciuta nel corso di uno stage effettuato proprio presso quest’ospedale (Ville –Evrard). L’iniziativa è durata per più di dieci anni, anche se molti dei pazienti che vi hanno preso parte hanno seguito poi percorsi diversi nel corso del tempo. Penso che comunque, almeno per alcuni, si è trattato di un’opportunità di utilizzare sia la lettura e la scrittura come tramite per un riconoscimento della loro condizione clinica al di fuori di un contesto di malattia, comunque sempre presente, indipendentemente dai luoghi fisici in cui l’esperienza si è svolta, in ogni caso all’interno di situazioni unicamente di tipo ambulatoriale, quindi in ambiti istituzionali che potremmo chiamare più deboli sul piano strutturale. La tenuta del gruppo, quindi, derivava forse sia dal riconoscimento dei partecipanti di afferire ad uno stesso luogo di cura, in forma del tutto volontaria, sia dai vari legami transferali con gli operatori dello stesso Servizio, aspetto che si intreccia inevitabilmente con la stessa “volontà” di partecipazione ed interferisce in vario modo anche con la sua prosecuzione.
Si è trattato comunque, anche in questo caso, come per altre iniziative del Servizio, di un’esperienza che potrei chiamare “fluida”, in quanto legata in particolare agli operatori che vi hanno preso parte, rendendone così più difficile la trasmissione e quindi la sua stessa prosecuzione.
Mi sono anche interrogata sulla scelta di questo tipo di attività e penso che un aspetto importante sia stato il tentativo di riformulare, in un certo senso, la nominazione relativa ai nostri pazienti in quanto principali protagonisti anche della stessa legge di riforma. Messe momentaneamente da parte le varie classificazioni nosografiche, antiche e moderne, è entrato in uso il ricorso al nome proprio per ognuno di loro, soprattutto da parte di alcuni membri dell’equipe cui poteva capitare che i malati si rivolgessero in prima persona, magari per specifiche confidenze meno codificate rispetto ai loro più frequenti malesseri. All’interno del gruppo, poi, questa componente poteva essere ulteriormente riformulata dai rispettivi testi scritti o dai commenti “personali” che erano indotti ad esprimere. Senza soffermarmi ulteriormente su quest’esperienza, che penso meriterebbe un altro spazio di discussione, vorrei aggiungere che, diversamente dal caso Joice che tendeva con la sua nuova scrittura a “farsi un nome”, in maniera comunque spontanea, qui la tendenza a rinominare i pazienti (o forse la psicosi in genere) potrebbe dirsi più dalla parte degli operatori o del loro desiderio. In questo caso, infatti, i testi o le parole utilizzate venivano proposti da quest’ultimi, anche se poi erano i pazienti ad accettare o meno un aggancio attraverso di loro per restituire qualcosa d’altro ( compreso il rifiuto o la mancata partecipazione).
Penso che anche quest’esperienza possa rientrare nelle conclusioni del mio possibile bilancio sulla legge italiana, come ha brillantemente sintetizzato una paziente che ad ogni sua telefonata, nonostante fosse stata corretta varie volte da chi capitava di risponderle, (dato che il telefono era il suo mezzo preferito nel contatto con il Servizio) diceva :”Pronto, Casa Mentale ?”, rendendosi così sempre facilmente riconoscibile, al di là del suo nome o della sua diagnosi. Quale migliore definizione di un luogo – non luogo, quale possibile risultato della riforma ?
PATRIZIA PIUNTI
Bibliografia :
Note : 1) “Manuale di psichiatria” di F. Giberti e R. Rossi (1983)
- “Le Bulletin Freudien” 98/32, pag.25
- Seminario III, 1955-56 : “Le psicosi“