30 Mar L’automatismo mentale – di Patrizia Piunti
Giornata di studio “La clinica delle psicosi” (Morlupo, Dipartimento di Salute Mentale RM F4, 20 ottobre 2005)
di Patrizia Piunti
La scelta di questo tema nasce, oltre che dalla lettura di quanto ampiamente teorizzato da de Clérambault nelle sue “Opere psichiatriche”, anche da una mia curiosità clinica relativa ai cosiddetti “esordi psicotici” e più in generale a quanto mi capita di osservare in certe situazioni in cui non compaiono inizialmente sintomi deliranti floridi, ma in cui il quadro che emerge successivamente si configura come una psicosi franca, oppure ancora dove la diagnosi iniziale sembra orientarsi verso una nevrosi grave o un disturbo di personalità, quando poi la progressione clinica non conferma tale orientamento. Mi è capitato inoltre di ascoltare alcuni pazienti, con diagnosi di psicosi (più frequentemente di tipo affettivo) che hanno provato a raccontare il momento di ingresso nel processo psicotico, magari dopo diverso tempo da quell’episodio, ed a volte anche le sensazioni provate prima di essere presi nel meccanismo che ne aveva segnato il percorso in maniera inequivocabile.
Automatismo è un termine di origine greca che contiene in sé l’idea di un movimento, anche nel senso di “aspirazione”.( Il verbo “mao” significa : medito, aspiro a, cerco, ho in animo, come in latino “mens”).Quindi si tratta di un meccanismo che si potrebbe dire “va da sé”, ma come se fosse un movimento che tende verso qualcosa. C’è forse qualcosa nel meccanismo psicotico che può “andare da sé”, una volta che si è messo in moto? Del resto una definizione del termine “automa” che si può trovare nel dizionario è quella di “macchina semovente, che ha in sé i principi del moto proprio”, e che “imita i movimenti dei corpi animati”di cui vengono anche elencati degli esempi tratti da ingegnosi modelli costruiti nel corso della storia ( dai teatri meccanici dell’epoca alessandrina, alle invenzioni di Leonardo da Vinci, fino agli attuali robot). Riguardo questa seconda connotazione del termine mi sembra vi si possa cogliere un aspetto di ripetizione di un movimento che si presenta sempre uguale a se stesso, a volte secondo una cadenza stabilita e che, pur potendo procedere da solo, é comunque assoggettato ad un qualche tipo di programmazione preordinata (per es. certi orologi campanari animati con cortei e processioni di figure allegoriche che scandivano i vari periodi della giornata nel XIV secolo).
Per tornare al discorso della clinica mi è capitato di incontrare recentemente una paziente che mi ha permesso di accostarmi in qualche modo alla situazione in cui questa persona stessa è stata, suo malgrado, presa da un ingranaggio che sente di non essere in grado di fermare autonomamente, tanto da propormi uno scritto che rappresenta quasi un lascito testamentario a chi la circonda rispetto a quello che si configura per lei come una vero e proprio annullamento, ossia ciò che potremmo chiamare la morte del soggetto. La lettera è stata scritta in un momento in cui la pz aveva perso i suoi riferimenti più abituali rispetto alla cura e doveva rivolgersi ad interlocutori nuovi (in questo caso il nostro CSM e me in particolare), che non conosceva se non come indicazione che le era stata fornita dai suoi precedenti terapeuti. Sembra quindi che abbia cercato di propormi una specie di carta di presentazione relativa però solo al momento precedente all’insorgenza di un’eventuale nuova crisi, che lei pensa possa ripresentarsi con modalità analoghe. C’è quindi qualche tratto che la pz ha colto quasi premonitore di quanto si sarebbe poi configurato come un episodio delirante acuto (nell’ambito di una psicosi affettiva che le è stata diagnosticata da molti anni) ed il suo appare come un tentativo di sistematizzare qualcosa rispetto ad una condizione che di lì a poco sarebbe diventata più forte di lei, tanto da lasciarla in balia degli eventi. In effetti questo suo discorso potrebbe sembrare analogo a quello che le era già accaduto nella sua “sistematizzazione delirante”. Ma in questo caso, poichè la pz aveva già iniziato un percorso di cura, si può pensare che possa aver attinto qualcosa anche da questo o comunque da tutte le sue precedenti esperienze di ingresso nel delirio. Al di là quindi degli elementi nuovi della sua organizzazione di pensiero, nello scritto non emergono disturbi di linguaggio propri della psicosi.
Vi compare, invece, in particolare il riferimento ad un nome, proprio di un farmaco, che la pz scrive a caratteri cubitali come per sottolinearne l’importanza che lei gli attribuisce in quanto sarebbe all’origine di tutti i suoi problemi e che “il suo inconscio” le ingiunge di gettare via ogni volta che sta male. Senza entrare in merito più approfonditamente sulle caratteristiche della lettera l’aspetto che mi sembra possa ricollegarsi al tema di questa relazione è soprattutto quanto vi è di “automatico” e di “autonomo” in quello che la pz coglie nel progredire della sua sintomatologia ancora non organizzata in un discorso delirante più strutturato. Si potrebbe dire che si tratti di qualcosa che si “impone”, quasi di “parole imposte”, volendo far riferimento a quanto riferito da Lacan nei confronti di un caso clinico citato nel seminario “Le Sinthome”.
De Clérambault , insigne clinico francese, nel 1920 formulò per iscritto la sua teoria sull’automatismo mentale, osservando, fra l’altro che:“il pensiero diviene estraneo in una forma indifferenziata e non in una forma sensoriale definita : la forma indifferenziata è costituita da una mescolanza di astrazioni e di tendenze, sia con elementi sensoriali, sia con elementi plurisensoriali a volte vaghi e frammentari”. Aggiunge poi : «le allucinazioni propriamente dette, sia le uditive che le psicomotorie, saranno successive…l’automatismo mentale così definito è un processo autonomo; si riscontra assai frequentemente isolato e non comporta di per sé alcun delirio, anche se un delirio può sopraggiungere negli anni successivi all’esordio». Si tratta quindi di qualcosa che è caratterizzato da “estraneità” e “autonomia”. Qualcosa, quindi, che si appropria del soggetto a sua insaputa, che è estraneo e che agisce in totale autonomia. Non si può forse riscontrare una qualche affinità con quello che scrive la mia paziente?
Quando de Clérambault elaborò la sua teoria dell’automatismo mentale il suo angolo di osservazione era rappresentato principalmente dalla sua attività presso l’Infermieria Speciale della Questura di Parigi , per cui, sotto un certo aspetto lo potremmo considerare quasi uno psichiatra di “prima linea”. Doveva infatti abbinare nel suo lavoro, oltre ad una notevole capacità diagnostica anche un’altrettanto efficace abilità prognostica in quanto si trovava ad operare in condizioni di grave urgenza in cui, tra l’altro, gli veniva richiesto un parere di tipo giuridico relativo allo stato di pericolosità sociale che la malattia mentale stessa poteva comportare, trovandosi così a decidere tra ospedalizzazione o sanzione penale. Tutto questo impegno doveva anche essere profuso entro un margine di tempo relativamente breve o comunque inferiore ai lunghi periodi di internamento cui erano poi destinati alcuni dei pazienti visitati in quelle occasioni. Si trattava pertanto di un contesto clinico che presenta molte analogie con alcune delle situazioni vissute giornalmente dagli attuali operatori dei servizi territoriali. Al di là della sua collocazione storica che lo vede inserito tra i sostenitori di un organicismo erede delle teorie anatomo-fisiologiche del XIX secolo, De Clérambault era soprattutto un clinico attento e rispettoso dell’individualità dei suoi malati cui si accostava principalmente attraverso un rigoroso dialogo arricchito dai suoi commenti di cui ci ha lasciato numerosi e fedeli resoconti.
Riguardo l’automatismo mentale egli se ne occupò sin dal 1909, prima di formularlo per iscritto nel 1920. In precedenza i deliranti cronici erano stati studiati solamente (1)“attraverso il metodo clinico descrittivo ; gli autori cercavano di esporre al meglio possibile la storia dei loro pazienti ed a raggruppare nello stesso quadro quelli la cui evoluzione era simile. Per questo motivo i “perseguitati-persecutori” erano stati isolati all’inizio ed è così che Magnan descrisse il suo delirio cronico sistematizzato in opposizione a quello poco sistematizzato dei degenerati. In seguito a questo Serieux e Capgras nel 1909 avevano distinto le forme puramente interpretative da quelle allucinatorie. Si tratta dell’inizio dell’analisi strutturale, ma persiste la concezione di base, ossia la caratteristica resta il sentimento morboso di persecuzione. Clèrambault ha voluto sostituire a quella semplice constatazione una teoria basata sui disturbi generatori della malattia, secondo l’espressione utilizzata in seguito da Minkowski. Per lui l’essenza della psicosi è l’emergere nella coscienza di un modo di pensare inferiore e patologico che coesiste con il pensiero normale, spesso in contrasto con questo e non riconosciuto dal malato come il prodotto naturale del suo proprio psichismo. Questi fenomeni sono chiamati “automatici” perché sembrano sorgere e svilupparsi da soli, mentre nel nostro pensiero vigile e normale abbiamo l’intuizione e l’illusione che siamo noi a guidarli, che li facciamo sorgere nella nostra memoria , che li vogliamo e infine che li riconosciamo come appartenenti al nostro io. Questa concezione si ricollega alle idee di Baillarger e di Seglas, ma soprattutto alle teorie di Pierre Janet sull’automatismo psicologico”, per quanto poi sostanzialmente se ne distacchi.
Ma in che cosa si può ancora trovare l’attualità e l’originalità del pensiero di De Clerambault riguardo l’automatismo mentale al di là di tanti suoi possibili moderni seguaci che indagano sui meccanismi biochimici o neuro umorali del cervello riproponendoci l’antica diatriba tra anima e corpo?
In primo luogo vorrei riprendere come l’autore parla di questo tema . Egli riprende la definizione già in uso ed introdotta in particolare da Baillarger e Séglas. Vi sono così compresi (2)“i fenomeni classici : anticipazione del pensiero, enunciazione degli atti, impulsi verbali, tendenza a fenomeni psicomotori”.Questi fenomeni,però, sono distinti dalle “allucinazioni uditive , ossia dalle voci oggettivate, individualizzate e tematiche. Sono inoltre distinte dalle allucinazioni psicomotorie caratterizzate”. De Clèrambault vede quindi nell’automatismo mentale “un disturbo per così dire molecolare del pensiero elementare”, mentre il delirio vi appare come una “sovrastruttura” che ne fa una “costruzione intellettuale secondaria”. L’aspetto interessante e originale di questa sua osservazione ci permette di cogliere qualcosa di strutturale nel fenomeno psicotico, un nucleo “anideico”, come lo definisce l’autore, che si pone in antagonismo con il tema della “comprensibilità” sostenuta soprattutto da Jaspers relativamente ai fenomeni psicotici (così come sottolinea Lacan nel suo seminario sulle psicosi).
Per introdurre l’argomento sarebbe opportuno riprendere anche il tema delle allucinazioni così come venivano definite, sulla base di una lunga tradizione, (per esempio, in Esquirol nei primi anni dell’Ottocento) ossia come “percezioni senza oggetto”. In un certo senso allucinava o delirava chi, per motivi vari, non sapeva fare buon uso della ragione che rappresentava quindi un baluardo contro la follia. J. P. Falret nel 1864 completava le tesi di Esquirol sottolineando l’assenza di coscienza da parte del malato, da cui un ‘adesione senza riserve da parte del soggetto. In entrambe queste teorizzazioni, così come possiamo trovare anche in alcuni orientamenti attuali relativi alla classificazione dei disturbi mentali, si può riconoscere una certa “ingenua fiducia nell’affidabilità della nostra percezione del mondo esteriore” (come sottolinea J.C. Maleval a proposito della concezione del delirio) nonché un tributo particolare reso all’eredità illuministica della ragione come elemento fondante di ogni giudizio. Inoltre vi si può cogliere un orientamento a considerare il soggetto come “trasparente” (come rileva Ferretto) rispetto al suo convincimento. Nel corso del XIX secolo, inoltre, i clinici si sono progressivamente interessati anche ad altri tipi di fenomeni allucinatori che, come nel caso dell’isteria, venivano percepiti come tali, a differenza di quelli che si imponevano al soggetto come corpi estranei. Nell’ambito di questa differenziazione ancora problematica si inserisce il lavoro di De Clérambault che, tramite la sua teoria dell’automatismo mentale, tende a riconoscere ai fenomeni cosiddetti psichici il loro valore clinico. Così sottolinea dell’automatismo il suo carattere “non sensoriale”, ossia “il pensiero che diventa estraneo lo diventa nella forma ordinaria del pensiero, ossia in una forma indifferenziata e non in una forma sensoriale definita : la forma indifferenziata è costituita da una mescolanza di astrazioni e di tendenze, sia senza elementi sensoriali, sia con elementi plurisensoriali a volte vaghi e frammentari”. Aggiunge poi che si tratta di “un processo autonomo che si riscontra molto spesso isolato e non implica di per sé alcun delirio, anche se un delirio può comparire molti anni dopo il suo esordio”(Opere, p. 343).
Quest’ultimo aspetto mi sembra particolarmente interessante relativamente a quanto attualmente ci capita di osservare anche nella clinica odierna, soprattutto nel campo delle psicosi. Occorre anche aggiungere che la teoria di De Clérambault si differenzia da quella dell’”automatismo psicologico” di P. Janet in cui si parla di una debolezza delle funzioni superiori di sintesi che diminuirebbero il “sentimento dell’io interiore”, liberando così gli automatismi del subconscio. L’autore, invece, sottolinea, in particolare, il ruolo centrale svolto dall’“eco del pensiero”che vi compare come “un fenomeno brusco e spesso iniziale”. Così a proposito di un caso di automatismo post- onirico ebbe occasione di evidenziare che la sindrome d’automatismo compariva quando i disturbi onirici erano scomparsi, come anche che non c’è eco del pensiero nei periodi onirici. Si può trovare qui (come scrive Maleval) “un’analogia con la tesi di Freud secondo la quale esiste nel sogno una regressione topica alle rappresentazioni inconscie, che non si ritrova nella schizofrenia”. Appare inoltre interessante l’osservazione di De Clérambault che il soggetto parassitato dall’automatismo verbale resta capace di “percezioni fini e di introspezione”. Lo stesso Lacan, che riconobbe in lui il suo principale maestro in psichiatria e ne apprezzò le fini osservazioni semeiologiche, sottolinea l’aspetto di “normalità” dell’automatismo stesso, con riferimento alle caratteristiche della lingua in cui la questione “è piuttosto di sapere perché l’uomo normale non si accorge che la parola è un parassita”.
In particolare mi è sembrato interessante, rispetto ad alcune situazioni della mia pratica clinica quotidiana, il tema dell’”automatismo ideico”, ossia del pensiero sentito come estraneo. In questi
casi emerge soprattutto “una sensazione di non appartenenza” da parte del soggetto, come sottolinea Jean/Jacques.Tysler in un suo articolo riguardo l’opera di De Clérambault. L’autore aggiunge come nell’automatismo si possono cogliere due versanti : ”esposizione di una struttura in cui la paziente è legata ad un bordo e, d’altro lato, ancoraggio contro il sentimento mortale di disumanizzazione”. In altre parole, come si legge nel seminario di Lacan sulle psicosi, si può pensare ad un modo di riallacciarsi alla soggettivazione che si sta perdendo attraverso un “minuto commentare il corso della sua vita”. L’automatismo ideico di De Clérambault, aggiunge Tysler, «comporta una perturbazione del corso del pensiero comprendente, per es., il pensiero estraneo, il pensiero imposto, l’anticipazione del pensiero ecc». Tutto questo si può riassumere nell’Eco del pensiero, per cui il pensiero è sdoppiato nel tempo e nello spazio senza che il paziente si senta particolarmente colpito né perseguitato da questi fenomeni al loro inizio, per di più in assenza di delirio. Queste caratteristiche del fenomeno mi sono sembrate particolarmente interessanti per le situazioni presentate da alcuni pazienti che mi è capitato di ascoltare. Senza entrare nella differenziazione diagnostica, si trattava comunque di casi in cui sono comparsi fenomeni simili a quelli esposti, con la caratteristica di essere indipendenti dal quadro clinico di base, ossia di manifestarsi o all’esordio o durante il percorso di cura, quasi come fenomeni a sé stanti, a volte riconosciuti dagli stessi pz e considerati un ostacolo al buon andamento della terapia, a volte quasi ignorati o colti solo dai curanti durante il colloquio. L’aspetto che mi ha più incuriosito è stato proprio il fatto che questi fenomeni potevano, in un certo senso, essere enucleati dal quadro clinico, ossia avevano in sé un aspetto strutturale. Nell’automatismo mentale c’è quindi qualcosa che sembra proprio andare da sé e in particolare sembra rappresentare un preludio a quella morte del soggetto che si potrà manifestare nella cristallizzazione delirante.
Tra gli psicanalisti post-freudiani J. Lacan è certamente quello che si è più interessato a questo fenomeno soprattutto nell’ambito del suo lavoro con gli psicotici. Ne accenna già nella sua tesi di laurea sulla paranoia, ma lo riprende in particolare nella sua elaborazione della struttura della psicosi. A questo riguardo uno degli aspetti più originali e innovativi è rappresentato dal concetto di “forclusione”, che arricchisce ed in parte si differenzia da quello freudiano di rimozione, in quanto specifico del campo delle psicosi. Accanto a questo è importante tenere presente la sua categorizzazione di Reale, Simbolico e Immaginario secondo cui articola anche la sua teoria della psicosi. Non potendomi dilungare particolarmente su questi temi vorrei però accennare ad un punto che mi è stato suggerito proprio dal medesimo termine di “automatismo” di cui ho finora parlato. Ricollegandomi a quanto ho detto inizialmente mi è sembrato di cogliere una relazione tra la tensione di movimento che è insita nella parola stessa e la definizione di allucinazione espressa da Lacan come ciò che “è stato messo fuori dalla simbolizzazione generale strutturante il soggetto” ritorna nel reale. Nel seminario sui Quattro concetti fondamentali della psicanalisi aggiunge che il «reale è ciò che giace sempre dietro l’automaton, …..del ritorno, del rivenire, dell’insistenza dei segni cui ci vediamo comandati dal principio di piacere», sottolineando quindi «la funzione del reale nella ripetizione». Nel caso dell’automatismo descritto da De Clérambault, in cui ci troviamo in una situazione che appare un po’ al confine di un’allucinazione più strutturata, ossia di quelle voci oggettivate e tematiche di cui avevano parlato gli autori precedenti, si può cogliere comunque una tendenza verso questa direzione, anche se non sempre avviene. Sarebbe interessante approfondire i tratti differenziali delle situazioni in cui l’automatismo non evolve e quello che si fa seguire da una delirio sistematizzato, come anche quanto possa interferire su questo una situazione di transfert, ma penso che sia necessario un’ulteriore approfondimento di ricerca.
Ritornando infine al caso della paziente di cui accennavo all’inizio, potrei dire che la descrizione della sua esperienza, per quanto un po’ confusa e frammentaria, ha rappresentato per me una testimonianza preziosa di quell’ingresso nella psicosi in cui traspare l’angoscia e la disperazione di dover subire di lì a poco una specie di sequestro di persona. Mi auguro che l’avermelo comunicato le permetta di utilizzarmi come possibile interlocutrice di un discorso che possa almeno attenuare il suo timore di precipitare in un’ennesima e per lei catastrofica disgregazione.