Lo Smemorato di Collegno – di Muriel Drazien

Il caso detto dello Smemorato di Collegno rappresenta un pezzo d’Italia nel periodo immediatamente successivo alla Grande Guerra. Esso mostra in modo esemplare il ruolo importantissimo allora giocato dai media (in particolare dai giornali) in alcuni processi e, a sua volta, la capacità di una vicenda giudiziaria di imprimere una forte impronta sulla letteratura popolare e d’autore – visto che questa ispirò scrittori come Luigi Pirandello e Leonardo Sciascia. La vicenda ebbe così grande risonanza da entrare nel tessuto socioculturale italiano (con il quale si trovò in perfetta sintonia), più ancora che in quello psichiatrico. Perché?
Come è evidente con l’odierno “caso Cogne”, il coinvolgimento della curiosità popolare è sempre altissimo e il movimento delle folle influenza i protagonisti delle vicende, compreso coloro che sono chiamati a stendere perizie o a formulare un giudizio. La suggestione collettiva viene messa all’opera dall’enigma anche se, ovviamente, la massa non è in grado di risolverlo. Il caso esce allora dal campo della scienza o della giurisprudenza e i protagonisti divengono preda del pubblico (a mo’ degli auto da fé o delle decapitazioni di piazza nel passato).
Perché lo Smemorato di Collegno è rimasto problematico per la psichiatria? L’enigma, così pregnante in questo caso specifico, in ambito psichiatrico si è trasformato in un dibattito fra lo scientifico e l’intuitivo (vista la mancanza di riferimenti che avrebbero permesso di inquadrare fatti e protagonisti).
Il caso è stato classificato come amnesia di identità. Ma non c’è nulla di meno sicuro di tale classificazione. Nella realtà, ancora oggi non sappiamo con certezza se si trattò di vera amnesia o se il protagonista del caso ricada nella casistica dei “truffatori sotto mentite spoglie”. Non siamo sicuri neppure davanti alla cartella clinica; non sappiamo se ci fu davvero un periodo – sia pur breve – di amnesia giacché, come si sa dalla psichiatria, l’amnesia “rientra” da sola dopo un periodo di tempo (variabile, a seconda dei soggetti).
Colpisce il quadro biografico del paziente, pienamente conforme alle descrizioni degli autori che hanno avuto a che fare con casi di sicure amnesie di identità. Senza poter con certezza diagnosticare il caso dello Smemorato di Collegno tra le amnesia di identità di tipo psicotico, è tuttavia sorprendente osservare sino a che punto in tale personaggio fosse spinto in avanti il rifiuto dell’ordine simbolico e della funzione paterna – elementi strutturali della psicosi. Gli elementi biografici in nostro possesso dimostrano che – almeno a partire da una certa età – lo Smemorato effettivamente si burlò di tale dimensione.
È altresì evidente che, insieme all’abbandono del patronimico, la vera (o presunta) amnesia liberò il protagonista dalle angosce esistenziali vissute sino ad allora. Con l’abbandono del nome (e di ciò che questo veicola), lo Smemorato si liberò del peso generazionale (filiale), delle responsabilità sociali, di tutti gli impegni conferitigli dal patronimico. Assumere una nuova identità facendo proprio il nome del prof. Giulio Canella – vale a dire assumendo un’identità alleggerita dalle angosce, anche perché molto strutturata socialmente – non fu forse una soluzione originale o un sinthome (nel senso proposto da Lacan a proposito delle supplenze nel caso Joyce). Per parte mia, e riferendomi ai lavori di M. Czermak e della sua scuola, suggerirei per lo Smemorato di ricorrere alle categorie di “a-patronimia” (a causa del patronimico scaricato) e di “pseudo-Fregoli” (a causa della disgiunzione tra l’immagine del corpo e l’oggetto – i(a) dell’algebra lacaniana (che si afferra bene in questo caso incentrato sul problema del riconoscimento).
Prima di entrare in materia vorrei ricordare il lavoro di L. Roscioni, autrice di un volume edito da Einaudi sullo Smemorato. Si tratta dello studio, non di una psicanalista, ma di uno storico della mentalità e del costume. Roscioni sottollinea a proposito di questo caso la compartecipazione della stampa, degli scrittori e del grande pubblico catturati dallo scenario appassionato in cui due mogli si contendevano lo stesso uomo e due famiglie riconoscevano nello stesso Sconosciuto uno di loro.
Il dibattito e l’intera battaglia giudiziaria si svolsero sullo sfondo del lutto nazionale italiano per la Grande Guerra – lutto che, come ebbe a osservare A. Diaz, si trasformò in “illusione purissima”: quella per cui ogni donna colpita da esso poté immaginare che il corpo del Milite Ignoto (transitato nel 1921 attraverso tutta la Penisola su un treno speciale che si fermava ad ogni stazione e destinato ad essere inumato sotto all’Altare della Patria a Roma) appartenesse al proprio marito o figlio disperso. Si formò così una sinergia attorno alla questione del riconoscimento di un corpo: a livello nazionale e collettivo del corpo del Milite Ignoto; a livello privato del corpo di uno Sconosciuto, divenuto enigma per l’Altro.
Nelle memorie Alla ricerca di me stesso scritte a firma di G. Canella rimane traccia del primo incontro fra Giulia e l’Uomo di Collegno. Prima ancora del carattere, dei modi, del linguaggio dello Smemorato, ciò che la donna sostenne di aver riconosciuto fu il “corpo” dell’uomo – il corpo perduto e, ora, ritrovato e conteso. Giulia enumera, come tanti pezzi staccati, la forma della testa, la barba, le unghie, le labbra, gli incisivi, il colore degli occhi. Singolare anche il riconoscimento fatto da un medico che era docente di Psicologia sperimentale: non fu tanto, in questo caso, la fisionomia a convincerlo quanto i gesti, il “modo in cui [lo Sconosciuto] teneva il cucchiaio mentre sorseggiava il caffè”. Questo dettagliato riconoscimento non è tuttavia attendibile giacché, malgrado le varie discrepanze tra la figura dello Smemorato rispetto e quella dello scomparso Canella, l’oggetto all’interno dell’involucro viene comunque riconosciuto, ma il riconoscimento avviene in base ad un convincimento del tutto indipendente dalle circostanze.
In Pathologie de l’image du corps (“Patologia dell’immagine del corpo”), S. Thibierge scrive: “ il legame stabilito fra l’immagine del simile e il nome usato per designarla non dipende da alcuna mediazione del riconoscimento… l’articolazione del nome con l’immagine non dipende da alcun esame del viso o dell’apparenza, nessuna somiglianza dei tratti o dell’aspetto viene presa in considerazione e nemmeno interrogata”. “Qual è quella x, sempre la stessa, che nomina il nome e sveste la consistenza dell’immagine in modo tale che l’apparenza che riveste il simile possa essere intercambiabile”?
Il fenomeno in cui è implicato il riconoscimento dei corpi si osserva frequentemente nella clinica delle psicosi, la cui particolarità è la seguente: per un soggetto, l’altro che gli si presenta davanti – quale che sia il modo in cui gli appaia, sia vestito, quale che sia la sua forma – è sempre lo stesso uomo e porta sempre lo stesso nome.
M. Czermak ha avuto il merito di reintegrare la sindrome di Fregoli nella clinica della psicosi, rivelando come essa fornisca la chiave di risoluzione per molte questioni Ricordo che L. Fregoli (1867-1936) fu attore di varietà e celebre trasformista, capace di cambiare rapidamente e senza sosta il suo personaggio (cioè la propria apparenza). Nella clinica delle psicosi parliamo di sindrome di Fregoli quando chiunque entri nel mio campo costituisce sempre lo stesso oggetto persecutorio: quale che sia l’involucro (l’apparenza), il soggetto è sempre convinto trattarsi di una falsificazione o di un camuffamento giacché è sempre lo stesso oggetto ad abitare l’involucro. L’immagine del corpo dell’altro e che riveste l’oggetto corrisponde all’idea che il soggetto psicotico ha di ciò che si nasconde sotto le spoglie occasionali. Una volta individuato l’oggetto nascosto, lo psicotico non può più abbandonarlo.