
30 Mar Introduzione ai “quattro concetti fondamentali della psicanalisi” – di Marcel Czermak
Attorno al seminario di Jacques Lacan, I quattro concetti fondamentali della psicanalisi, 1964. Milano, Scuola di psicanalisi dell’Associazione Lacaniana in Italia, 12 marzo 2000.
di Marcel Czermak
Premetto che questo seminario non è un argomento su cui amo particolarmente intrattenermi poiché, essendo di un’attualità un po’ troppo scottante, è sempre difficile tenere il naso incollato alla porta e cercare allo stesso tempo di avere un punto di vista in prospettiva. Se non erro esso inizia con una lezione in cui Lacan parla della scomunica infertagli come della maggiore prevista dalla religione ebraica, l’helem, la stessa da cui in passato era stato colpito Spinoza. In virtù di questo provvedimento per lo scomunicato si accendono delle candele nere, consumatesi le quali l’individuo non solo viene dichiarato morto agli occhi della comunità ma, se si tratta di una brava persona, accetta di fare il morto lasciando che si passi sul suo corpo come su un cadavere. A partire da quel giorno coloro che lo incontreranno, si comporteranno con lui come se non esistesse: non lo vedono perché divenuto ai loro occhi un morto vivente, installato in una zona che Lacan, servendosi di un passo dal Vangelo di Giovanni, definisce «fra due morti».
Lacan nutriva una certa simpatia per il filosofo olandese proprio per questa somiglianza della vicenda, al di là delle ragioni intellettuali e di quelle dovute al destino. Egli infatti era stato scomunicato per aver affermato che il desiderio è l’essenza dell’uomo e che per molti aspetti la psicanalisi era stata essa stessa un’eresia rispetto alle sue origini freudiane. Non era sufficiente dire che il desiderio fosse l’essenza dell’uomo per imbattersi in un simile provvedimento ma dovette ribadire che esistono testi religiosi nella tradizione di Freud, ad esempio il Talmud, che si dedicano ad un commento infinito del testo, ad un commento del commento del commento. Ma cosa permette ad un certo punto di dire: «Mah, fermiamoci! Ecco di che si tratta!»? È una questione che Freud ha cercato di riprendere e che lo stesso Lacan ha riarticolato attraverso la questione del fallo e del Nome-del-Padre. Cioè che cosa fornisce ad un certo momento la certezza davanti a questa o quella problematica, precisando che non c’è certezza se non dopo l’atto e mai prima? Lacan era stato oggetto di scomunica anche se non del tutto esplicita e formalizzata come nel caso di Spinoza, essendo stata rivista e corretta in modo moderno, cioè più morbido, democratico. Questo tuttavia non ha impedito il costituirsi di una commissione d’inchiesta davanti alla quale comparissero alcuni suoi analizzanti ai quali venivano proposti ‘gradi’ in cambio di denunce. Una prova di verità per gli analizzanti! In Francia lo sappiamo bene dopo il governo di Vichy cosa fa sì che ci sia sempre una maggioranza pronta ad oscillare verso il lato della vigliaccheria. In altre parole, a quale condizione qualcuno può avere un po’ di coraggio? È una questione che la psicanalisi non ha ancora risolto e che non viene trattata frequentemente nella letteratura psicanalitica. Generalmente gli psicanalisti sanno che falliscono quando si tratta di infondere coraggio a chi non ne ha ma comprendono bene che il livello di coraggio che è in loro, è in funzione della verità e solo a questa condizione l’analizzante potrà in qualche modo uscire al meglio dalla propria disonestà o paura. Quanto dico chiarifica almeno che se è esatto affermare che il massimo di resistenza si trova sempre dal lato dell’analista, la questione della disonestà o del coraggio appartiene a quella della resistenza e delle grandi questioni politiche che in Francia e altrove hanno agitato il nostro secolo.
Dopo questo grave provvedimento credo che Lacan ne avesse davvero abbastanza della comunità psicanalitica e per un certo periodo aveva deciso di rimanere in disparte. Ci sarebbe stato poi bisogno di qualche amico che gli dicesse:« No, hai ancora molte cose da fare!». Sono dunque proprio gli amici che lo hanno spinto ad uscire dall’isolamento e se ci domandassimo per quale motivo abbia ripreso il suo insegnamento, forse la risposta si potrebbe rinvenire in quello che è sempre stato osservato nel suo modo di procedere. Egli infatti non avanzava se non sospinto dai desideri, dalle paure proprie e delle persone a lui vicine indipendentemente dalla loro età, sempre a condizione di non scocciarsi, non vomitare secondo l’etimo latino della parola che suggerisce nausea e vomito [s’ennuyer dataedet, NdR]. Dunque Lacan non voleva vomitare e per non averne troppo voglia gli servivano amici, compagni anche se gli ponevano questioni stupide ma nelle quali capiva trovarsi una verità nella stupidità e pur pensando che la stupidità è prossima alla disonestà.
Evoco queste vicende perché sono le stesse incontrate da Freud, le stesse che hanno permesso la ripresa dei seminari attraverso questo dedicato ai Quattro concetti fondamentali della psicanalisi. In una delle lezioni, credo l’undicesima, Lacan parla del transfert come realtà della «messa in atto» dell’inconscio. È una formula per nulla semplice commentare se la riferiamo al contesto nel quale è maturata la scomunica, nel momento in cui Lacan stava rimettendo in questione tutte le norme di standard, abitudini, tranquillità di psicanalisti incardinati nei propri ruoli. Se questa vicenda si è originata a questo punto delle sua attività, per Lacan è stato come un effetto di transfert sulla sua persona: poiché come soggetto faceva obiezione, bisognava sopprimere l’oppositore, colui che dice: «Non è affatto così». L’obiezione che Lacan sollevava, era stata eliminata da un punto di vista amministrativo attraverso l’obiezione accademica secondo la quale ci sarebbe bisogno di un consenso, il che implicherebbe che la rimozione sia identica per tutti. Lacan ha quindi raccolto attraverso la scomunica un effetto di transfert – alcuni direbbero di transfert negativo – ma in base al suo insegnamento è molto difficile sapere cosa sia un transfert positivo o negativo, dal momento che esistono amori così mortiferi come l’odio. Insomma, Lacan proponeva una concezione del transfert relativamente indifferente in rapporto alla questione dell’amore e dell’odio, pur ponendoli in posizioni diverse: poiché l’amore dipende dalla domanda, mentre l’odio prende di mira piuttosto l’essere. L’amore è piuttosto al congiungimento del simbolico con l’immaginario; l’odio è piuttosto alla giuntura tra l’immaginario ed il reale. Lacan ha raccolto in quell’occasione un effetto di transfert, che resta comunque un grande onore perché non tutti sono in grado di suscitare reazioni di questo genere, soprattutto quando non si hanno a disposizione divisioni blindate o un apparato statale correttamente organizzato.
Il punto supplementare riguarda il transfert come messa in atto della realtà dell’inconscio. Prendiamo le cose dal lato della realtà dell’inconscio. La realtà, secondo quanto dice Lacan, è un montaggio del simbolico, dell’immaginario e del reale e la rispettiva messa in atto. Nell’attraversare queste congiunture critiche che si presentano in alcuni momenti della nostra vita, si può assistere come effetto di transfert ad una decomposizione di questa realtà che allo stesso tempo costituisce la prova di questo. Voglio dire con questo che sia nel campo analitico sia nel campo sociale possiamo osservare manifestazioni del puro registro simbolico, immaginario e reale. Altrimenti detto, la difficoltà della vita sociale può disintricare ciò che normalmente fa il nodo dei tre registri ma ugualmente è anche ciò che permette di non essere obbligati a vivere con una pistola sul collo.
Questa definizione di transfert come messa in atto della realtà dell’inconscio comporta ugualmente il termine di atto, messa in atto. All’epoca in cui Lacan ha prodotto questa formula lui stesso non aveva fatto grandi passi avanti sulla questione dell’atto ma sappiamo quanto lo preoccupasse, dal momento che il lavoro originario che lo aveva portato all’analisi era il caso di Aimée che è anche un caso di un tentato omicidio. Come definire ciò che un giorno verbalmente aveva chiamato, parlando con noi, il “punto d’atto” dicendo che era un modo per lasciare in sospeso la definizione di ciò di cui stiamo discutendo? Si tratta di un atto vero, pieno o di chiacchere, di un bluff? È un acting-out o un passaggio all’atto? Qual è la differenza fra acting-out e passaggio all’atto, acting-out e atto? Dunque il semplice fatto di definire il transfert come «messa in atto» non pregiudica la natura dell’atto che è messo in moto nel transfert, poiché è il seguito che lo dirà, che darà la certezza sia dal lato del passaggio all’atto sia dal lato dell’esibizione fallica dell’acting-out. E quindi si capisce perché parlando di acting-out Lacan abbia in seguito potuto parlare di un equivalente psicotico, poiché più vogliamo interpretare questa esibizione fallica più la si moltiplica. Questo potrebbe spiegare perché Lacan abbia deciso di restare in disparte, in seguito al tentativo di passaggio all’atto – questa scomunica ? che lo riguardava in quanto persona. Dire che quelle persone stavano compiendo un acting-outnon sarebbe servito a nulla, per cui era meglio chiudere la bocca ed evitare la questione. Come ci si comporta allora di fronte ad un acting-out? In seguito, una delle sue risposte sarà che si paga sempre con una libbra di carne. Questo seminario è insomma un modo per ricominciare a pagare con la propria libbra di carne. Per darvene un esempio, penso che nello stesso capitolo in cui parla del transfert come messa in atto della realtà dell’inconscio, Lacan riprenda dallo schema ottico l’idea per cui laddove il soggetto pensa di vedersi, non è lo stesso luogo da dove guarda ma come con la distinzione del tutto essenziale del carattere fondamentalmente illusorio ed erroneo del fatto che crediamo di vedere un terreno abbastanza stabile, con punti di riferimento, delle coordinate e poi che c’è un punto da dove veniamo guardati che misconosciamo. Poi un giorno la terra ci trema sotto i piedi e ci si domanda cosa sia successo ma evidentemente non abbiamo gli elementi per poterlo apprezzare. Credo in ogni caso che possiate sentire come in tutto questo seminario Lacan non si impegni a rispondere direttamente e come cerchi di trattare analiticamente ciò che gli è successo, analizzandolo dall’angolo che concerne la disgiunzione tra lo sguardo, l’immagine e la funzione dell’oggetto a che viene a funzionare come l’otturatore di una macchina fotografica. Quello che volevo dirvi è che in sostanza si può leggere questo Seminario come la risposta di Lacan a ciò di cui lui stesso è stato oggetto, come si sia cercato di metterlo fuori campo in quanto lui stesso teneva questa posizione di oggetto e i suoi compagni pensavano che questa posizione di oggetto venisse ad otturare il campo.
Ciò che trovo di molto notevole in questo seminario è che, se non conoscessimo la congiuntura storica che lo ha originato, potremmo senza dubbio leggerlo pensando che non è successo niente di speciale, cioè Lacan non ne ha fatto un polverone ma un problema analitico, un progresso nella psicanalisi. Esistono infatti una serie di considerazioni topologiche introdotte che attraversano tutto il campo della psicanalisi e che testimoniano come Lacan sia stato obbligato, per cosi dire, a restare sulle generali, a raccogliere molti elementi. E quando infatti egli dice quattro concetti fondamentali, sono sicuro che se li contassimo, sarebbero almeno una quindicina.
Il resto di questo saggio è in Marcel Czermak, “Conferenze italiane 1999”, Associazione Cosa Freudiana, Roma, 2000 (Pubblicazione ad uso interno di Cosa Freudiana).